Il primo racconto breve: “Selezione del personale”.
Buona lettura.
Si tolse gli occhiali, li posò alla sua destra e si passò le mani sul volto; resisteva ancora un po’ l’odore del dopobarba sulla pelle liscia, curata. Quindi fissò lo sguardo sulle pareti bianche della piccola stanza, al primo piano di un edificio del centro storico di Savona. Gli piaceva osservare arredamenti e dettagli attraverso la sfaldatura della miopia, lo faceva sentire a suo agio.
Per esempio, poteva fissare a lungo la sua segretaria, una donna sui quarant’anni, alta, capelli ondulati e neri, alla sua destra, senza alcun timore. Era una figura dalle linee confuse, dove gli occhi grandi, erano solo chiazze nere dai contorni sfumati, come la bocca; mentre il vestito, un tailleur senza fantasia, un insieme colorato di stoffa. I suoi fianchi un po’ larghi, le gambe lunghe e robuste, perdevano il potere di solleticarne gli istinti. Lui non era sposato, lei era divorziata da sei anni.
Però non poteva restare a lungo così; dopo aver preso un altro fascicolo, dalla pila che aveva a sinistra, lo posò al centro della scrivania.
Disse:
“Può farne entrare un altro.”
La donna probabilmente sorrise, spinse indietro la sedia, facendola strisciare sul pavimento, si alzò in piedi, e si diresse verso la porta.
Quando il giovane varcò la soglia, inforcò di nuovo gli occhiali, gli fece cenno di prendere posto sulla piccola sedia e aggiunse:
“Sieda pure.”
Accompagnando il tutto con un breve sorriso, già tirato. L’orologio da polso segnava le undici e mezza, e quello era il quindicesimo candidato. La selezione era iniziata circa tre ore prima, nell’edificio che dava su via Pia; occorreva scegliere una cinquantina di persone per il prossimo centro commerciale che avrebbe aperto nel giro di un anno, alla periferia della città. Undici erano già stati scartati, e due ragazzi, diciottenni da pochi mesi, erano semi analfabeti. Il loro curriculum, piegato in malo modo, scritto a mano; era un insieme di brevi frasi e un paio di suppliche, con grosse lettere tracciate da mani non abituate a scrivere, e che senza la guida delle righe del foglio, piegavano verso il basso. O verso l’alto.
Non era stato semplice evitare di ridere loro in faccia.
Anche quello che entrò era giovane; probabilmente una ventina d’anni, capelli corti, occhi scuri, un tipo tranquillo e mingherlino, che non amava sorridere, lo sguardo severo e attento. Trasmetteva l’idea di una persona solida, del tutto incapace di colpi di testa, il classico tipo su cui si può fare affidamento.
Nel fascicolo c’era scritto molto di più, l’età precisa, il titolo di studio, le esperienze lavorative passate, o l’impiego attuale; lui preferiva o lasciarlo chiuso, oppure sfogliarlo distrattamente, senza mai distogliere lo sguardo da chi aveva dinanzi. Era il suo metodo per prendere o lasciare, dare un nuovo lavoro, oppure abbandonare nella disoccupazione, nel lavoro in nero, nel vecchio impiego. Agiva così da circa dieci anni, e poteva affermare di aver sbagliato ben poco. A quarantacinque anni, era un uomo che pareva soddisfatto: buoni abiti, buone maniere, discreti studi alle spalle.
“Lei mi pare una persona a posto. Cerchiamo una figura di assoluta fiducia cui affidare la gestione delle merci in entrata e in uscita del nostro magazzino. Gestirà materiali per decine di migliaia di Euro ogni giorno, avrà a che fare con autisti, colleghi, dovrà avere una buona capacità di socializzare, mantenendo però le distanze: perché sarà un responsabile. Delle persone alle sue dipendenze, organizzerà il lavoro nel modo migliore. Inoltre, sarà sua cura vigilare, e segnalare alla direzione comportamenti poco consoni, o viceversa, encomiabili. Che ne dice?”
Aprì il fascicolo, e diede una scorsa appena a nome e cognome. Il ragazzo si schiarì la voce, disse:
“Io ho già lavorato in un paio di magazzini…”
“Lo so, certo.” In realtà solo in quell’istante aveva visto qualcosa a proposito, sul curriculum battuto a macchina. Senza errori, con una spaziatura un po’ generosa. La firma diceva Enrico Parodi.
“L’ho fatto presso un negozio di apparecchiature elettriche. Poi in un’azienda che vendeva materiale per l’edilizia. Quindi la mia esperienza è un po’ differente rispetto a quello che cercate voi, ma non mi spaventa l’idea di imparare qualcosa di nuovo.”
“Le devo rivelare che lo stage, di sei mesi, avverrà in provincia di Torino. Non siamo in grado però di offrire un alloggio nei dintorni, quindi sarà costretto a fare il pendolare, col treno. Provvederemo solo al rimborso del biglietto.”
“Lo so. Si tratta di tenere duro per un po’ di mesi. E poi,” si strinse nelle spalle, “per sei mesi, non è la morte di nessuno.”
“La giornata lavorativa sarà di otto ore. Niente straordinario, ovviamente. Mezz’ora di pausa. Più o meno quattro ore di treno ogni giorno.”
“Non vedo alcun problema. La fatica non mi ha mai spaventato, se l’obiettivo è buono. Come in questo caso.” Disse il ragazzo; deglutì.
Una certa proprietà di linguaggio; la voglia di imparare, di lavorare. Sorrise appena, annuì:
“Bene, bene, direi allora che possiamo concludere.” Si rivolse alla donna:
“Per cortesia, lo accompagni nell’ufficio accanto, dove potranno spiegargli tutta la procedura.”
“Mi scusi, questo significa che mi assumerete?” Chiese, la voce un po’ incerta.
“Proveremo a fare questo cammino assieme, sì. Buona giornata.” Disse, e gli porse la mano mentre la segretaria, già in piedi, gli stava indicando la porta accanto, l’altro ufficio dove un paio di persone avrebbero indicato al futuro dipendente, diritti, doveri e documenti da preparare per l’assunzione.
La donna tornò dopo pochi istanti, chiese:
“Un altro?”
Lui allungò le gambe sotto la scrivania, mise da parte il fascicolo, afferrò il seguente:
“Stiamo rispettando la tabella di marcia?”
“Perfettamente. Siamo in anticipo.”
“Di?”
“Una decina di minuti.”
“Molto bene, tiriamo un po’ il fiato allora. Certo che se ci fosse una macchinetta del caffè…”
“Qui sotto all’angolo, c’è un bar, se vuole posso andarci io.”
“Davvero?”
Restò solo nell’ufficio, ne approfittò per alzarsi in piedi, stiracchiarsi per bene, e camminare attorno alla scrivania. Poi diede un’occhiata alla via, all’andirivieni delle persone a piedi, mentre su quella accanto, ricoperta non d’asfalto ma di sanpietrini, c’era una lunga fila di auto che avanzava di pochi metri, ogni tanto. Era una giornata serena, un po’ ventosa, un autunno che non lesinava in pioggia e acquazzoni improvvisi, come aveva fatto la notte precedente.
Ficcò le mani nelle tasche della giacca scura, soffiò sul vetro della finestra, poi disegnò un sorriso e due puntini come occhi:
“Mi sto rincoglionendo.”
Quando tornò la segretaria, scolò il caffè in piedi, appoggiandosi al muro della stanza, poi disse:
“Ce l’abbiamo ancora un po’ di tempo?”
“Non c’è ragione di fare le cose in fretta. Loro possono aspettare.” Indicò col capo verso la porta, oltre la quale una trentina di persone, di età varia, attendeva il colloquio. Nel pomeriggio, ce ne sarebbero state almeno altre sessanta; il giorno seguente, martedì, e quello dopo ancora, si sarebbe replicato.
La donna sorrise, abbassò gli occhi chiari e tornò a sedere.
“Le posso chiedere da quanti anni lavora nella nostra azienda?” Domandò all’improvviso l’uomo, posando la tazzina ormai vuota sul piattino, e tenendolo in mano.
“Saranno venti il prossimo luglio.” Rispose dopo averci riflettuto sopra per pochi secondi.
Sgranò gli occhi:
“Così tanti?”
La donna sorrise, ma non rispose nulla.
“Le deve piacere molto.”
“È un lavoro come un altro.”
“Ma le piace?”
Non rispose subito; fissò il suo interlocutore, e capì subito che stava subentrando in lei una sottile forma di disagio. Lui la colse, si avvicinò alla scrivania, e disse:
“No guardi, prima che mi fraintenda. Non sto misurando il suo tasso di fedeltà aziendale. È una domanda senza alcun secondo fine. Non è che la faccio licenziare, se mi risponde in un certo modo.”
“Certo che mi piace.” E con una mano sistemò una ciocca di capelli che era scivolata sugli occhi.
“E non ha mai sognato niente di diverso?”
“Perché?” Si strinse nelle spalle.
L’uomo sedette sull’orlo della scrivania, posò la tazzina sul piano, accanto ai fascicoli. Quindi si tolse gli occhiali e piantò gli occhi nella depressione scura a metà circa di quel volto che aveva perso ogni connotazione precisa, regredendo alla condizione di una massa rosea, senza nitidezza alcuna.
Disse:
“Voglio dire. Tutte le mattine lei si alza, si veste, va in azienda, in sostanza ripete le stesse cose, con pochissime variazioni, da venti anni. Dico bene?”
“Certo.” Frenò una risata.”
“E tutto questo non le viene a noia?”
Incrociò le braccia sul petto, sospirò.
“No,” disse, “e poi ci sono le ferie. Spezzano il ritmo.”
“D’accordo, ma poi si rientra.” Insistette. “E tutto ricomincia, uguale, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, un mese dopo l’altro.”
“Sì”. Dichiarò con una lieve nota di divertimento nella voce.
L’uomo si grattò il lobo dell’orecchio destro:
“E dove prende la forza per andare avanti?”
“Come?” Allungò un poco il collo sottile, sempre più stupita da quella conversazione.
“Sì insomma. Qual è la molla che ogni giorno la fa alzare e ripetere tutte le cose, sempre, come se fosse la prima volta? Lei lo fa con piacere, giusto?”
“Sì. Mi pare di averglielo già detto.”
“Ecco, vorrei capire questo. È il senso del dovere, che le permette di andare avanti? Dio? Lo stipendio? Qualche prospettiva nel migliorare la propria carriera in un futuro più o meno prossimo?”
“Sì ecco.” Disse, un po’ confusa.
“Sì ecco, ma cosa?”
La donna si schiarì la voce, si guardò attorno; prese una penna dalla scrivania, la posò subito. Da anni lavorava con quell’uomo incaricato anche della selezione del personale, ma quella era la prima volta che tra loro due si scivolava su tali argomenti. Lei era una donna sola da qualche anno, e non le sarebbe affatto dispiaciuto che tra di loro scoccasse qualcosa. Un tipo robusto, molto capace, con occhi chiari sul volto luminoso, un po’ squadrato. Però quelle domande le mettevano addosso una strana apprensione.
“Io non capisco.” Disse infine, sperando di interrompere così quella strana, morbosa curiosità. Infatti chinò il capo.
“Lei non sente l’orrore?” Chiese l’uomo.
Deglutì. Piantò lo sguardo su quel volto disarmato dagli occhiali, d’un tratto stanco, quasi vecchio.
“Davvero non capisco, mi spiace.” Balbettò.
“Ha ragione, mi scusi. È tutta colpa mia.” Si giustificò quasi subito. “A volte, ho dei pensieri di cui non riesco a liberarmi.” Recuperò gli occhiali, li indossò, quindi disse:
“Ne faccia entrare un altro. Cerchiamo di finire presto questo lavoro.” Tornò a sedere.
La donna scattò in piedi, si diresse verso la porta, l’aprì, e fece entrare il prossimo.
L’uomo mormorò:
“Allora lo sento solo io.”
Poi alzò gli occhi sul nuovo candidato che aveva dinanzi, un quarantenne alto, robusto, completamente calvo, con la spalla sinistra più bassa dell’altra; disse:
“Si sieda, la prego.”
Dopo qualche istante abbozzò un lieve sorriso, e mentre la donna tornava a sedere, il viso un po’ cupo, disse all’uomo:
“Secondo me, lei potrebbe essere impiegato nelle corsie del nostro magazzino, per sistemare la merce in arrivo e verificarne le scorte. Che ne dice?”
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Il primo pensiero va a quegli occhiali che fanno vedere bene ma che solo quando si tolgono si vede meglio!
Complimenti Marco, grande inizio 🙂
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@ Gaz:
Grazie!
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C’è chi sente l’orrore ma non ha il coraggio di dirlo o di ammettere che non è omologato. C’è chi l’orrore non lo sente, da quanto è omologato. Poi, c’è chi sente l’orrore e sa che non può essere come gli altri.
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Grazie. Mi sono quasi dimenticato di questo racconto. E pure degli altri…
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