Il terzo racconto breve. Il suo titolo: Il cappotto.
Buona lettura.
Il primo giorno di dicembre si presentò con l’intenzione di rendersi indimenticabile, e per questo aveva sfoderato un sorriso cattivo, e bianco. Durante la notte, la neve aveva ricoperto le alture cittadine, e un costante vento gelido, spirava da nord. Alla faccia della nomea di: Riviera, sole e caldo tutto l’anno.
Verso le sei del mattino, il camion della raccolta dei rifiuti sbucò dal fondo della via, lampeggianti e fari abbaglianti, s’inerpicò sino ad affiancare i cassonetti, e si arrestò di colpo, mentre il compattatore spingeva e triturava la spazzatura già caricata.
I due uomini sui predellini posteriori balzarono a terra, diedero un’occhiata al mare, che dal quartiere di Legino, pareva petrolio, cupo, denso, e batterono le mani nei guanti, due, tre volte; il freddo era tale che non c’era tempo di star lì a capire se era mosso, solo parzialmente, o molto. I muscoli del volto erano indolenziti, e sciarpe e berretti, oltre al cappuccino caldo ingurgitato pochi minuti prima, si erano già dimostrati di nessuna utilità. Da qualche parte, oltre le nubi scure, sarebbe sbucato il sole nel giro di un’ora; ma c’era da star certi che la temperatura avrebbe orbitato attorno allo zero per buona parte della giornata.
Quando si avvicinarono ai cassonetti della spazzatura per spingerli sulle ruote cigolanti, verso il camion, scorsero un bel cumulo di sacchi neri, formavano una piccola montagnola. Qualcuno aveva svuotato la cantina, o soffitta che fosse, e gettato tutto lì accanto. Non ci fu tempo di bestemmiare o imprecare, perché al di sopra di essi, scorsero la figura di una donna. Pareva galleggiasse, la testa un poco reclinata indietro, le braccia aperte, un cappotto chiaro su un povero vestito.
Era grassissima.
Si guardarono in faccia, uno dei due disse:
- Ma che è?
Tornarono a guardarla, e se non fosse stato per il gelo che mordeva le carni, avrebbero creduto di sognare, o di essere vittime di qualche scherzo idiota. Per un certo periodo, un povero scemo si era acquattato dietro i cassonetti, in un quartiere del centro, per balzare fuori all’improvviso con un urlo, e correre via ridendo, felice di aver spaventato gli addetti alla raccolta dei rifiuti.
Adesso se ne stavano lì, sicuri che da un momento all’altro, la donna avrebbe alzato il capo, per osservarli, e ridere loro in faccia, o qualcosa del genere. Sentivano il freddo addentarli, eppure quella visione li disarmava, rendendoli come i fili d’erba della povera aiuola, piegati dal vento, inerti.
Il più basso si riscosse un poco, ma senza distogliere gli occhi da quella massa di carne flaccida e bianca, chiese:
- Che cosa facciamo?
- Signora? -. Chiamò l’altro con un filo di voce.
- E secondo te ti risponde?
L’autista del camion pigiò due volte il clacson, poi la sua voce dal finestrino:
- Ma ci diamo una mossa?
I due uomini parvero infine ridestarsi da quello strano incantamento, e il più basso urlò di rimando:
- C’è una cosa… Non si muove.
Avrebbe voluto aggiungere dell’altro, ma l’autista, bestemmiando, aprì la portiera del veicolo, abbandonò la cabina, scese, e a terra quasi perse l’equilibrio per una raffica di vento, fortissima. Si avvicinò a dare un’occhiata.
Sobbalzò, disse:
- Oh cazzo -. E si tolse il berretto di lana, batté le mani lungo i fianchi, ripeté due, tre volte: “Cazzo”, e si rimise frettolosamente il copricapo. Il vento stava assumendo forza, parevano lame di affilato acciaio, non folate.
- E adesso? -. Tornò a chiedere il tipo basso.
L’autista estrasse il cellulare, e pestando i piedi per terra, fece il numero del 118.
- Adesso che -. Disse. – Mica crederai che stia dormendo?
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Lì nel quartiere la conoscevano un po’ tutti. Quale fosse il suo nome, buona parte di quelli che scambiavano con lei quattro chiacchiere, perché era una donna tranquilla, lo vennero a sapere dai giornali.
Iolanda Spaccacasse, di anni 75.
Viveva in una rimessa, a quanto pare di sua proprietà, praticamente da sempre, e tirava a campare frugando nei cassonetti dell’immondizia. Beveva, ma anche quando era ubriaca da stramazzare a terra senza riuscire più ad alzarsi in piedi, e si doveva chiamare un’ambulanza perché nella caduta si feriva: non dava fastidio a nessuno. Piangeva, quello sì, agitava i pugni verso il cielo, e piangeva ancora più forte; poi si ritirava nella rimessa a smaltire il vino da due soldi che ingurgitava, per sbucare solo nel pomeriggio successivo. Oppure verso sera.
Non c’era granché su di lei presso i servizi sociali del Comune; la parrocchia negli ultimi anni, aveva spedito la donna presso la mensa della Caritas, oppure in uno degli alloggi a disposizione dei senza tetto, quando l’inverno si faceva davvero insolente.
Nella rimessa dove viveva, c’era una branda, qualche coperta lurida, cianfrusaglie a non finire, un fornello a gas, avanzi di ogni genere e tipo; fu necessario chiamare la squadra di disinfezione comunale per fare ordine e pulizia. Poi, abbassarono la saracinesca basculante, di cui era stata forzata la serratura, e la lasciarono in quello stato. Dopo qualche ora, qualcuno mise delle pietre, dei mattoni, per evitare che il vento, rabbioso, riuscisse nell’impresa di aprirla, riempiendo di cartacce e spazzatura l’interno.
Il sostituto procuratore ordinò un’autopsia per fugare ogni dubbio a proposito della sua morte; ma era improbabile che qualcuno l’avesse assassinata, per poi trascinarla in spalla, o a forza di braccia, vicino ai cassonetti. Pesava più di cento chili.
Due giorni dopo, nel primo pomeriggio, il corpo della donna era steso completamente nudo su un tavolo in acciaio, nell’obitorio del cimitero di Zinola.
Erano più o meno le due, e il meteo prevedeva un peggioramento, con neve in abbondanza anche sulla costa. Il dottor Fausto Esposito batteva le dita sulla tastiera nera del computer, ogni tanto si arrestava, alzava gli occhi chiari sullo schermo, rileggeva, poi riprendeva a digitare.
Il suo giovane collega da qualche istante passava a setaccio gli indumenti della morta, e quando le lunghe mani infilate nei guanti presero a palpeggiare il cappotto della defunta, disse:
- Sembra che qui abbiamo già qualcosa di interessante.
Il dottor Fausto si tolse gli occhiali da vista, riapparve il volto un po’ acerbo, gonfio, di un ultrasessantenne che la montatura spessa, di plastica, rendeva modestamente interessante. Si sfregò gli occhi, sospirò:
- Ne dubito. E cosa sarebbe?
- Sembra che ci sia qualcosa, nella fodera, qui in basso. Della carta -. Rivelò, palpando quel capo d’abbigliamento.
Inforcò gli occhiali:
- Tu vai in bicicletta?
- Che c’entra?
- Tu vai in bicicletta? -. Domandò di nuovo, muovendo il capo in avanti.
- No.
- Una volta, – prese a spiegare, – non c’erano tutti i materiali di oggi, e i ciclisti per proteggersi dal freddo, mettevano carta di giornale sotto le maglie. Lo avrà fatto pure lei, poveraccia -. Batté i piedi per terra, tossicchiò.
Marco De Mari annuì, ma non smetteva di palpare la fodera del cappotto.
Lo stese sul piano in alluminio, poi si spostò alla ricerca di qualcosa, sulla scrivania in metallo bianco, lì vicino. Aprì e richiuse un paio di cassetti, infine frugò a lungo nel terzo, finché non riemerse con quello che cercava: un paio di forbici. Fausto lo seguì armeggiare per un po’; tornò alla relazione.
- Finisco questo e arrivo. E’ tutto pronto? -. Domandò.
- Non ti preoccupare.
Marco tagliò la cucitura della fodera, e infine la sollevò; per qualche istante restò a osservarne il contenuto, poi fissò il collega, senza dire nulla, o attirare la sua attenzione. Costui per un paio di minuti continuò a digitare, a rileggere e a riprendere a battere. Sbuffava pure, perché aveva fretta di terminare, e quello, e l’autopsia che sarebbe stata solo selettiva, per rientrare a casa prima che la neve, e il traffico, facessero collassare le strade. E più muoveva velocemente le dita, maggiori erano gli errori che produceva.
Infine girò distrattamente lo sguardo verso Marco, l’assenza di rumore lo turbava sempre un po’; eppure passava una larga fetta della propria vita tra gente tranquilla, in posizione orizzontale. Corrugò le spesse sopracciglia e ruotò la cigolante poltrona imbottita per osservarlo meglio.
- Che c’è?
- Non si tratta proprio di giornali -. Allungò una mano ed estrasse delle banconote rosse, mostrandole al collega. Questi si alzò in piedi, si avvicinò al piano, e allungò il collo per osservare sia quello che gli veniva mostrato, che il contenuto della fodera.
- Ma sono, sì insomma: soldi.
- Pezzi da 50 Euro, o da 20, chiusi in una sottile striscia di carta da pacchi, e poi cuciti all’interno della fodera del cappotto -. Ne lacerò ancora un pezzo per mostrare il resto del denaro.
- Vorrei sapere come ha fatto ad ammassarne così tanti.
- Pure io -. Confessò Marco. – E viveva in una rimessa? Frugava tra i rifiuti?
- Il vino le aveva mandato in pappa il cervello. Altroché -. Disse Fausto dopo qualche istante di silenzio, stringendosi nelle spalle. Crollò il capo, poggiò le mani sul piano:
- Sai che significa? -. Chiese. – Che ci tocca avvertire i Carabinieri, e passare anche la serata qui, invece che andarcene a casa.
- Che è, colpa mia? -. Posò le forbici. – Non possiamo far finta di niente. E poi ci sarà una ricompensa, immagino.
- Come no? Lei è morta, i parenti non ne esistono, saranno presi in carico dal comune che tra qualche anno, forse, ci darà una percentuale. Dopo aver trattenuto quella sborsata per le spese del funerale.
- Fanno sempre comodo. E mi pare che qui ce ne siano un bel po’.
- Io finisco il mio lavoro. Scatta le foto, e chiama l’Arma -. E si mosse verso la scrivania, sfregandosi vigorosamente le mani grandi, e pelose. Le poggiò sul termosifone, praticamente freddo, imprecò in silenzio, e tornò a sedere.
Dopo oltre tre ore, i Carabinieri non si erano ancora fatti vedere, l’autopsia era terminata, così come la relazione per la Procura della Repubblica. Era stato un infarto a uccidere la donna. Il dottor Fausto se ne stava alla finestra, osservando i fiocchi di neve sempre più fitti, compatti, prendere posizione.
Disse:
- Nel giro di un’ora, sarà tutto bloccato -. Sbuffò; era meglio avvisare a casa, ma decise di attendere ancora, sino all’arrivo dei Carabinieri. In questo modo, forse avrebbe avuto una pallida idea di quando sarebbe uscito di lì.
- Ma che ti hanno detto i Carabinieri? Quando arrivano? -. Chiese ancora.
- Te l’ho detto. Sono impegnati con un mucchio di chiamate. Incidenti vari, non ho ben capito.
- Andiamo bene -. Commentò tra i denti.
- Probabilmente, ci sarà da chiamare il Procuratore della Repubblica, perché deve essere informato di questo nuovo fatto.
- Lo faranno loro, spero.
- Lo spero anche io.
- Sempre meglio! Vedrai che ci passeremo la serata, qui.
- Tu abiti alla Villetta, giusto? -. Domandò Marco dopo qualche istante.
- Già -. Confermò.
- Un bel problema, con quella salita.
- Il problema non è la salita, ma i fessi senza catene che la percorrono, dopo che il meteo da giorni prevede neve -. Infine si voltò, lo sguardo di nuovo sul cappotto.
Disse:
- In fondo lei, aveva una giustificazione, ma noi?
Marco si era appiccicato al termosifone, quasi certo di essere lui a scaldare quello, e non viceversa:
- Cosa? -. Domandò.
- Lei aveva accumulato una fortuna, – spiegò, – ma era matta, incapace di godersela. Anche noi abbiamo una fortuna, siamo sani di mente, o almeno lo crediamo, ma agiamo come lei.
Fissò il suo collega, e chiese:
- Qual è il tuo, il mio cappotto, qual è la ricchezza che nasconde?
- Lavoriamo assieme da un pezzo, – disse Marco passandosi una mano sui corti capelli biondi, – ma io a volte proprio non ti capisco.
- Lascia stare, – disse, staccandosi dalla finestra, – non c’è niente da capire, infatti. Proprio niente.
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