Come scrivere un racconto – Raymond Carver /2


“La casa di Chef” è un racconto scritto da Raymond Carver. È racchiuso nel libro “Cattedrale”. Ha come protagonisti delle persone con problemi di alcol. Wes sta cercando di darci un taglio, Chef è un ex alcolizzato; Edna è la moglie di Wes che dopo averlo piantato, gli offre un’altra possibilità. Accetta il suo invito, e torna a vivere con lui.

Concentriamo l’attenzione sull’autobiografismo; è una delle piaghe che affligge buona parte delle scritture di esordienti. Spesso si crede che per raccontare basti allungare la mano e attingere dalla nostra esperienza. Siamo certi che funzioni? Oppure, che funzioni solo se abbiamo vissute esperienze estreme (l’alcol, o la droga)? Un autore di solito sceglie un episodio, una debolezza che conosce bene, per illustrare un cammino. Una frattura. Un distacco o un addio.

Perciò quello che a uno sguardo superficiale è “puro autobiografismo”, è invece la rappresentazione di un percorso. O un frammento di quel percorso. Una situazione che Carver conosceva per esserci passato, certo. Ma l’autore la rielabora imponendo all’esperienza il giogo dell’arte.

Cosa vuol dire? Vuol dire impegno, fatica. Il giogo dell’arte di cui ho parlato, rende la storia uno specchio dove ciascun lettore possa riconoscere la propria umanità. Non quella luccicante degli spot, bensì quella genuina che appartiene a ciascuno. È una sorta di processo di disintossicazione cui il lettore si sottopone. Ecco perché certi autori, o storie, non piacciono e molti chiedono a gran voce “libri che distraggano”. Qualcuno potrebbe ribattere: ma Primo Levi?

Giusto rilievo. La lettura di “Se questo è un uomo” è un tuffo nell’esperienza dell’autore nei campi di concentramento. Al di là della correttezza formale, quello che brucia il lettore è l’orrore creato da alcuni uomini, per annientare altri uomini. Esiste arte in quel libro? Non credo che Levi lo abbia scritto per quello, ma per ricordare.

Il bello della letteratura è che non ci sono regole. A parte quelle grammaticali, e di sintassi, ciascuno può scrivere quello che desidera. Questa non è solo una risposta diplomatica. È la realtà. Ma la trappola in cui si cade quando si leggono autori come Carver è credere che sia sufficiente prendere un episodio, e scrivere. Questo produce una cosa chiamata “resoconto”. C’è una bella differenza tra resoconto e racconto. Molti credono di raccontare, mentre invece si limitano a fare un resoconto di quanto è accaduto loro la scorsa estate. Buono per i giornali di terza categoria, pessimo per il resto.

Raccontare vuol dire spostare il proprio sguardo da quell’ingombrante essere chiamato “Io” per rivolgerlo all’umanità. Ci vuole affetto per quella massa di sconosciuti che forse nemmeno apprezzerà i nostri scritti. E quell’affetto ci obbliga a prestare attenzione a ogni frase. Nella speranza di possedere il talento che, come si sa, non è democratico. Non frequenta molta gente.

In conclusione. Se vuoi scrivere, bada a fare un deciso passo indietro, prima di iniziare. Meglio due passi indietro. A parte amici e conoscenti, non interessa a nessuno cosa hai combinato ad agosto in quel di Rimini o ad Alassio. Le tue esperienze possono essere solo uno spunto; se non allarghi la tua narrazione in un abbraccio, genererai solo noia. La letteratura quello è, alla fine: un abbraccio. A volte imbarazzante; a volte meraviglioso.

Come scrivere un racconto – Raymond Carver /1

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6 commenti

  1. Divago (a volte mi piace, e sì fa parte del mio lato egoista coinvolgerti in certi discorsi).

    Parlando (o forse avrei dovuto usare “scrivendo”) di letture autobiografiche, mi torna in mente il libro “Sognavo l’Africa” di Kuki Gulmann.
    Autobiografico, scrittura non eccelsa. Insomma non mi ha colpito per la tecnica ma per l’anima. Quella dipende dalla storia, giusto?
    Un modo di scrivere poco efficiente affiora qua e là per tutto il libro, soprattutto nella prima parte. Ad esempio espressioni come “ricominciamo partendo dall’inizio”, a mio gusto raccapricciante. Ricominciare racchiude già il significato delle altre due parole sprecate. E così per altri casi, fino a desiderare un punto in alcuni paragrafi interminabili e gonfi di aggettivi. Uso di parole come “metallo” e simili in modo ridondante, eccessiva ripetizione di incontri di gente con gli occhi turchesi, azzurri, blu e ogni sinonimo di sfumatura per la lunghezza d’onda dello spettro del visibile tra il verde e il violetto.

    Ciò nonostante la storia valeva la pena di essere raccontata e letta e il libro mi è molto piaciuto.

    Pur volendo essere molto tecnico e attaccato alla teoria, motivo per cui seguo volentieri questo blog, devo ammettere che, a volte, la tecnica lascia il tempo che trova. Soprattutto quando il desiderio di raccontare qualcosa di forte si fa impellente. Non so se è solo questione di fortuna, a volte, ma il limite tra quello che interessa solo noi della nostra intima storia privata e quello che può interessare tutti della nostra storia autobiografica è spesso difficile da identificare.
    Quello che mi turba è che, alla fine, ogni persona ha una storia. Ogni persona è unica e merita un minimo di rispetto. Un minimo di ascolto. Si può sempre imparare dalla storia di qualcun altro. Certo, a volte, lo scotto è la noia assoluta.

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    • Non la conoscevo, per questo ho fatto qualche ricerca sul Web. Quel romanzo è stato pubblicato da Mondadori, e se c’erano quelle espressioni significa che l’editor forse era distratto 😉
      La tecnica (o forse è il mestiere?) non la giudicherei affatto male, anzi. Potrei ribaltare l’obiezione e dire: se avesse avuto più tecnica (o mestiere?), il suo messaggio non sarebbe stato più efficace? Più potente?
      Ci sono molte scritture che urlano, sono mosse da sincere intenzioni. E chissà che il self-publishing non serva a questo: garantire a ognuno l’opportunità di sfogare il proprio bisogno di essere ascoltati. Però, al di là della retorica di cui è ammantata la figura dell’editore, essa si muove su binari poco nobili: far quadrare i conti, pagare gli stipendi ai dipendenti. E per questo c’è bisogno di tecnica (o mestiere?). Ecco perché abbiamo Garcia Marquez (talento smisurato, e mestiere), e la testimonianza acerba, necessaria del malato, o dell’immigrato. Il primo può prendere un episodio come l’assassinio di un uomo e farne materia per uno dei migliori racconti del Novecento (“Cronaca di una morte annunciata”), mentre nella seconda senti pulsare un’urgenza che non bada a curare la forma, la struttura narrativa, a eliminare ripetizioni. Però resta anch’essa a farti compagnia per un po’. Garcia Marquez per sempre.

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