Immaginiamo che si abbia del talento; per scrivere si capisce. Avercelo come si sa, non garantisce nulla. In realtà intervengono tante di quelle variabili che potrebbe persino essere d’impiccio. Essere davvero bravi a scrivere, essere un Dostoevskij per esempio, potrebbe risultare un ostacolo. Il talento quello grande, è poco malleabile, e quando entra in contatto con l’industria dell’editoria (sì industria: è inutile immaginare che sia qualcosa di differente), sono scintille.
Come avere cura del talento?
Come si fa ad avere cura del talento? La prima risposta che balza in mente è: basta continuare a leggere. Bene. La seconda recita più o meno: occorre scrivere. Ottimo.
In fondo un artigiano se vuole lavorare deve continuare a praticare il proprio mestiere, senza perdere di vista cosa accade attorno a lui. Non per inseguire le mode (anche se può farlo, e in tanti lo fanno), bensì per celebrare o criticare il mondo.
Qualcuno rumoreggia(*). Lo scrittore artigiano? Anatema! Egli è artista, oppure nulla! Credo di averne già parlato in passato, e non ci tornerò di nuovo su. Anche perché l’argomento del post è altro.
Una visione della realtà affilata, profonda
La cura del proprio talento, dicevo.
Oltre alla lettura e alla scrittura, credo sia indispensabile sviluppare una visione della realtà più affilata e profonda.
Cercherò di spiegarmi con un esempio. Ci sono grandi autori che hanno scritto un ottimo romanzo, e poi una serie di opere giudicata unanimemente inferiori. Essere autore di una sola opera, è un’ottima cosa. Ci sono poi delle variabili su cui non abbiamo alcun potere. La salute. La moglie che scappa con l’editor (brrrr!!!). I figli. E altri elementi che possono indebolire il talento, sino a renderlo meno limpido.
In fondo non si fa altro che scrivere la stessa storia; il che sotto certi aspetti è inevitabile. I grandi autori scrivono e riscrivono dei medesimi argomenti; quello che rende “Delitto e Castigo” e “L’idiota” tanto magnifici non è solo la capacità dell’autore di rendere i pensieri “fiammeggianti”. Anche, si capisce. Ma soprattutto di alzare l’asticella. Se “Delitto e Castigo” è anche un giallo anomalo (perché conosciamo bene l’assassino), “L’idiota” riprende l’immagine del Cristo, e lo cala nella società russa, attraverso un principe affetto da epilessia.
È evidente che Dostoevskij non ha voluto cavalcare all’infinito un certo tema, ma ha sempre cercato di interrogare la sua vocazione, e per rispettarla ha dovuto ogni volta spingersi un poco oltre. Anzi, all’inizio della sua produzione, il suo sguardo si posava sui poveri (si intitolava appunto: “Povera gente” il primo romanzo dell’autore russo). Poi, vira. Poteva continuare su quella strada? Forse.
Però aveva compreso che il suo talento non doveva solo essere irrobustito con la lettura, o la scrittura di altri romanzi come quello. Dopo, fu la volta de “Il sosia” e con quello diede l’addio a una certa critica e letteratura che lo aveva eletto alfiere di “Idee nuove”.
Ma un romanzo o una raccolta di racconti hanno valore se l’autore sceglie di accrescerne il “peso”, il senso con quelli che verranno. Solo a questo punto diventerà il testimone della realtà che racconta. Se per i motivi più diversi non ci sarà alcuna scelta, probabilmente non solo continuerà a raccontare la medesima storia. Ma anche con il medesimo tono, dalla stessa prospettiva, senza quel coraggio che lo renderebbe protagonista della letteratura negli anni a venire.
Scrivere non è mettere parole sulla pagina
Ricordiamoci di questo. Se scrivere fosse solo mettere sulla pagina delle parole, tutti saremmo scrittori. La verità è che spesso un racconto o un romanzo, contengono molto di più di quanto appare a una prima lettura. Ci sono strati, significati e persino “simboli” che molti lettori non noteranno affatto. Almeno non nell’immediato. Forse agiranno come un fiume carsico dopo, forse no. Se si trascorrono le mattinate su un paragrafo, è proprio perché si desidera “stratificare”, non solo scrivere. E questo impegno è l’unico modo che io conosca (ma forse sbaglio), di onorare e aver cura del proprio talento.
(*) Il termine “rumoreggiare” è quello che io ho adottato e che mi impegno a usare sino a novembre del 2012. Per saperne di più, va il sul sito della Dante.it.
Mi trovi d’accordo. Il modo di vedere la realtà (perché credo che si scriva innanzitutto con gli occhi e la testa, prima che con la mano) o meglio di vedere dentro la realtà sono decisivi, per trasformare l’elencazione di una successione di eventi in un’opera letteraria. E questo comunque è opera di artigianato, perché richiede di imbrigliare e piegare il proprio talento, farlo funzionale a ciò che sentiamo o vediamo, renderlo letteratura. E’ proprio quest’opera di artigianato, a mio avviso, che diventa anche arte, portata ai livelli più alti.
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Non credo di dover aggiungere altro. Chi pensa che la scrittura non sia anche artigianato, probabilmente non conosce nulla.
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A proposito, ho portato l’ascia ad affilare 😉
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Mi fai paura quando parli così 😉
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La scrittura è senz’altro artigianato, ma questo non significa che ne venga sminuita. E la conoscenza della realtà è fondamentale, o più che conoscenza io parlerei di sensibilità alla realtà.
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Sì, penso che “sensibilità” sia il termine esatto. E Dickens era un grande artigiano, avevo un’attenzione straordinaria per il pubblico.
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