Una vecchia questione che può apparire risibile, o di lana caprina come si dice; e probabilmente lo è.
Però è interessante capire quale sia il rapporto tra un autore, e la sua storia.
Costui, che fa? Qual è il suo ruolo? È il semplice notaio che scrive, e basta? Ha una capacità di osservazione più affinata, e allora vede quello che gli altri non vedono (non vogliono vedere)?
Può darsi. Però su questo aspetto mi pare di aver già detto qualcosa: la storia non è MAI la rappresentazione fedelissima di quello che accade attorno a noi. È sempre un’interpretazione.
Che non sia una questione di secondaria importanza lo dimostra un fatto: qualunque autore trova sempre sulla sua strada qualcuno che gli chiede cosa c’è di lui in quelle pagine. Qualunque sia la risposta, questa sarà sempre parziale. Se pesca dalla sua vita, chi ascolta avrà un’impressione errata del lavoro che c’è nella scrittura. Il mondo è zeppo di persone che hanno esperienze più interessanti di chi scrive. Costui spesso è una persona banale, che non si distingue da quello che combinano i suoi simili se non per il fatto che “scrive”.
Se non pesca dalla sua vita, rischia di far passare un altro messaggio: è un abile assemblatore di faccende altrui, e dopo l’iniziale ammirazione chi ascolta lo guarderà con diffidenza. Perché penserà:
“Ecco, senza farsene accorgere mi sta osservando e così finirò in una sua storia. E sono certo che farò la parte di una pessima persona. Ma io lo denuncio!”.
Se non ricordo male, una volta Umberto Eco a una domanda che cercava di sapere quanto di lui ci fosse nel libro, rispose qualcosa come:
“Sì. Sono negli avverbi”.
Mentre immagino che la risposta giusta dovrebbe essere:
“Leggi la stramaledetta storia, e non ti infarcire la testa di domande sceme”.
Però non è possibile rispondere in maniera schietta, perché la raccomandazione dell’editore è sempre una:
“Tratta bene il lettore. Siamo in Italia, già sono pochi quelli che leggono e se vengono spaventati si rifugiano al caldo della televisione”.
Questo post deve pur trovare una conclusione però.
Temo che entrambe le posizioni siano incapaci di fornire una risposta esaustiva. Perché sono giuste, ma non in grado di rendere la complessità del mestiere di scrivere.
Non si tratta infatti di “pescare”, bensì di come si svolge il solitario mestiere di chi scrive. Ho già spiegato che a mio parere è una faccenda che differisce da autore ad autore. Perciò la risposta si trova da qualche parte nella testa, nella sensibilità, nella cultura, nel bagaglio di esperienze buone e cattive dello scrittore. Oltre a tutto questo, aggiungerei il talento. Come sempre, nessun chiarimento, solo la localizzazione della nebbia che avvolge il mistero della scrittura, e non si dirada: meglio di niente, no?
La storia arriva dal mondo che circonda l’autore, io la vedo così. Da aspirante scrittore pesco le mie storie da fantasie personali, curiosità, sogni e desideri, realtà.
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Sì, più o meno quello che accade a me. Sono immagini, di solito.
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Le storie mi arrivano da una frase di pochissime parole dette da qualcuno. Sono suggestioni di un attimo le storie. Come facciano poi a diventare malloppi di trecento pagine nessuno lo sa. È questo che le rende stramaledette 😉
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Diventano malloppi da 300 pagine perché forse non sono solo il resoconto di quanto accade, ma dentro ci deve essere ben altro. È quel “ben altro” che fa sudare.
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Non credo che scriverò mai un testo che parli direttamente di me, ma allo stesso tempo, in qualsiasi storia io scriva (dalla fiaba, al romanzo) una parte di me finisce tra quelle pagine: esperienze vissute, frasi sentite, persone osservate… A volte incontro uno sguardo per pochi secondi, credo che non sia importante e dopo anni ecco che quell’intensità finisce in un racconto. Oppure assisto a una scena, mi sembra banale ma poi diventa quotidianità in un romanzo. Insomma, i fili sono troppo intrecciati per dipanare la matassa, ma questo è il bello di scrivere!
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Non c’è una spiegazione “logica”: scrivere è mistero, oltre a mestiere.
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