Come scrivere il finale di una storia?



(Post aggiornato il 2 luglio 2022).

Come si scrive il finale di una storia? Non importa che sia romanzo o racconto: ma esiste un metodo per confezionare un finale convincente? Lo so che tu sei alla ricerca di una risposta “definitiva”. Di definitivo ci sono ben poche cose.

Quello che invece ti propongo è una riflessione, in modo che tu possa, forse, arrivare da te a confezionare il finale della tua storia.

Non esiste alcuna ricetta

Là fuori è pieno di guru che ti spiegano come scrivere incipit, finali, come descrivere il personaggio e chi più ne ha più ne metta. E probabilmente pensi di essere alle prese con uno di questi signori.
No.
Non c’è affatto la ricetta perfetta per chiudere in maniera degna una qualunque storia. Basta dare un’occhiata alla narrativa: ce ne sono di tragici (Moby Dick), di rivelatori, oppure sospesi.

Credo che tutti i romanzi o i racconti, anche quando si concludono, lo fanno solo per rimandare alla storia successiva. Secondo alcuni critici, “Delitto e Castigo” ha un finale convenzionale: a un certo punto il mio caro Dostoevskij ha deciso di confezionare una conclusione sensata e convincente. In pratica, Raskolnikov trova nella religione una ragione per accettare la condanna, e riscattarsi (attraverso la Siberia, vale a dire la sofferenza). Sì, convince: però…

Avrà davvero convinto il suo autore? Non credo: ecco perché dopo ha scritto altri romanzi. E questo lo si fa per riprendere e ampliare un discorso iniziato con la prima storia, e che forse non si concluderà mai. C’è infatti quella faccenda chiamata morte, che quando meno te lo aspetti ti falcia come erba nel prato.
Se perciò chi legge queste frasi pensa che da qualche parte ci sia il sistema, la soluzione: sappia che in realtà sta sbagliando.
Tuttavia, forse c’è una via d’uscita.
Un finale deve essere onesto. Che cosa significa?

Rispetta la dignità dei personaggi

Credo di averlo già scritto in passato: onesto deriva da onore. Questo concetto ha a che vedere con la dignità: dei personaggi. Sì, mi pare di averlo già scritto più di una volta, ma è meglio ribadirlo: non sono pupazzi al nostro servizio. Essi hanno una dignità. Mi rendo conto che ad alcuni suona almeno singolare questo modo di considerare la scrittura.

Cosa diavolo dici? Mica esistono i personaggi!

Questo pensa e dice l’esordiente.
Ma se non esistono allora scrivi di cosa? Noi siamo fatti di frattaglie e altre parti tutt’altro che nobili. Teniamo anche presente (come diceva zia Flannery: Flannery O’Connor e chi altrimenti?), che questo è un periodo storico dove il materialismo prevale. Ci si sciacqua la bocca con termini quali “cultura”, e si fanno anche gargarismi con la parola “arte”. Ma per disprezzarli meglio, per abbassarli allo stesso livello della mediocrità nella quale sguazziamo.
L’unico modo che si ha di parlare in questo mondo-mercato, è adottare un paio di strategie:

  1. Considerare i personaggi come soggetti con tanto di dignità. In questo modo si compie un’azione quasi rivoluzionaria: se questi hanno appunto dignità, questa si “trasmette” e rivela al lettore che deve contare su una prosa efficace, e di valore. E arriverà ad agire in maniera quasi misteriosa in lui, perché potrebbe iniziare a osservare gli altri con uno sguardo differente. Ma non è detto perché la scrittura, la lettura, non sono una panacea contro i mali;
  2. Colpire il lettore. Anche questo è un concetto che zia Flannery usava. D’altra parte, con gente che legge solo se il libro è “utile”, l’unico mezzo che si ha a disposizione per creare una relazione con costoro è appunto colpirli. Non mi riferisco certo a particolari truculenti, o a una prosa zeppa di insulti. Anzi: si parte da un personaggio con una sua dignità, quindi pesante e vivo, per arrivare a trasmettere un’idea della realtà meno ovvia. Colpire il lettore per me vuol dire ricordargli (ma spesso lui NON vorrà ricordarsene) che merita di meglio che il mondo-mercato. Che ha diritto all’arte, al bello. Concetti talmente rivoluzionari che è necessario svilirli, o ignorarli: quando si scoprono in tutta la loro potenza, è un guaio e un problema. Non per l’individuo, bensì per il sistema. Se tutto è arte, nulla è arte. Il modo per svilirla è raccontare la favola che l’arte deve essere “democratica”. La montagna è democratica? No: per questo l’80% degli italiani va al mare. Perché SA che è dura, per pochi, perché si concede a pochi e forse, in realtà, a nessuno.

D’accordo: ma come si scrive un finale? Ho già risposto: con onestà. Niente trucchi, scorciatoie, o riti strani. In realtà la storia ha già il suo finale: bisogna solo ascoltare. Ma se non sai cosa vuol dire porsi in ascolto, sei nei guai. Un autore che non sa ascoltare forse non è un autore.

Come IO scrivo il finale dei miei racconti

Lo so che ti aspettavi qualcosa di meglio.
Chissà chi diavolo è questo Marco Freccero che pontifica… Ma io non pontifico. Io sono un artigiano della parola. Non sono un artista come Tolstoj o Flaubert, e non lo sarò mai.
Chiarito questo aspetto (così tu magari hai tempo per andare altrove), ti svelerò come scrivo il finale dei miei racconti, quelli della Trilogia delle Erbacce.

Io non li scrivo.
Innanzitutto non pianifico un bel nulla. Non mi metto a pensare: adesso scrivo la storia di un marito e una moglie che si pestano…
Oppure quella di una tipa che vive all’ultimo piano di via Poggi a Savona. Assolutamente no.

C’è un’immagine, e inizio a seguirla. Non so cosa vuole, o cosa scriverò dopo. Non so nemmeno cosa ci sarà nella pagina seguente; figuriamoci il finale! Ma questo è un aspetto interessante. Se io non so nulla, non so come andrà avanti e cosa accadrà nella pagina successiva, ci sono discrete possibilità che anche il lettore viva la storia come la vivo io. Senza sapere come diavolo andrà a finire. Sarà una sopresa: per lui, ma soprattutto per me.

E poi arriva il finale. Ma scopro il finale solo mentre lo scrivo. Prima, non lo sapevo che quello era il finale.
Qui bisogna chiarire un punto.
Il finale non è “la fine di tutte le cose”. Di solito qualcosa appare, si svela da qualche parte, prima. Non sempre è così (infatti ho scritto: “di solito”), ma la regola è che il personaggio prima ha una rivelazione, scopre qualcosa su di sé. Allora può “scattare” anche il finale; ma non perché deve finire. Finisce il quel modo perché è stata svelata la posta in gioco, qualche pagina fa, qualche paragrafo prima. E il finale può essere anche uno squillo di telefono, il rombo di un tuono, distante.


Ecco i libri per imparare a scrivere.

21 commenti

  1. Ciao, Marco.
    Condivido con te: non credo che esista un sistema per rettificare un finale perfetto, quello che di solito usano gli esperti dell’arte pirotecnica e che ha delle sue precise ortodossie legati ai gusti di certe tradizioni, alle tendenze delle piazze, alle occasioni in cui si svolgono i fuochi. Ma lì si tratta effetti di luce nel buio, che devono far alzare gli occhi, nel caso di un testo la questione è meno visibile, più intristeca e relativa non solo al contesto di quel dato scritto, ma al senso che quel dato scrittore voleva imprimergli e che in quel certo finale dovrebbe quanto meno chiudere un circuito delicato di tensione che avrebbe provato e attraversato in prima persona scrivendo. Nei fatti vi sono diversi fattori imprevedibili che attraversano chi scrive nelle fasi attive ma anche passive del suo lavoro, dove, in alcuni casi, l’idea o anche la luce di un finale, potrebbe addirittura essere il primo impluso su cui costruire una storia, anche se al momento non lo si potrà intendere come un finale di un qualcosa di vuoto e di ancora inesistente, ma che spesso, lavorandoci, comincia con prepotenza a cercare delle zone estreme e visibili del testo dove annidarsi, quindi anche le ultime. Devo dire che quasi sempre i finali accadono, sono ill risultato di tutta l’energia psichica che si riserva nella piccola o grande traversata di quel certo periodo di lavoro, quindi non serve sempre pianificarli o architettarli, e spesso sorprendono chi li scrive quanto chi li legge, portando esattamente sullo stesso piano emotivo lo scrittore e il lettore. Ecco perché uno scrittore che non è sorpreso in prima persona dal suo lavoro, stupito, frastornato, pur avendone controllato (a freddo?) i più piccoli dettagli per tutto il percorso, non potrà mai davvero stupire il suo lettore, ma solo informarlo che la storia è finita. Come con un punto: anche quello è un finale, impeccabile (questo è solo un mio parere, naturalmente).
    saluti
    luigi

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    • Esatto, più intrinseca. Aggiungerei che è qui la ragione grazie alla quale spesso un testo agisce in maniera “misteriosa” sul lettore. Accade infatti che l’autore stesso sia quasi inconsapevole dell’energia che le sue parole racchiudono e poi svelano. Anche a distanza di anni. E quando ciò si verifica, il primo a stupirsene è proprio chi scrive.
      Se si maneggiano le parole in un certo modo (e per ottenere determinati risultati) non c’è niente di semplice: né il finale o l’incipit, ma neppure le virgole. Immagino che il finale debba essere come un’imboscata. A volte riesce, a volte no perché è possibile sbagliare; non credo che si possa “pianificare”. Forse nei romanzi, ma nei racconti la vedo dura. Ma questa è la mia idea.

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  2. Ciao Marco. Il finale per me non deve essere scontato, deve scaturire dalo spirito del libro ma deve comunque sorprendere, magari lasciare un sospeso, far pensare. Credo che il finale si formi piano piano nella mente di chi scrive, quasi inconsapevolmente. Sicuramente non amo il lieto fine classico: anche al lieto fine si deve arrivare con grazia e originalità, direi.

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    • Sì, concordo. Qualcosa del genere lo scrive anche Flannery O’Connor a proposito di un suo racconto dove la protagonista ha una gamba di legno. Lei spiegava di essere arrivata a quel finale senza rendersene conto; a poche righe dalla fine ha capito che cosa sarebbe accaduto. Prima non c’era che questa ragazza, la madre, e poco altro.

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  3. Secondo me dipende dalla storia. Alcune volte devi colpire il lettore, altre il finale deve essere tranquillo, una delle tante frasi che possono quasi passare inosservate, come se dovesse chiudere la storia in dissolvenza, per rubare un termine al cinema.

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    • Esatto, dipende dalla storia. Dalla personalità dei personaggi. Carver per esempio, a volte sembra “scaricarti”. Se però ti sorprende, forse stai scrivendo il finale giusto. E a quel punto, che sia in dissolvenza o sorprendente, non credo che sia importante.

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  4. “Cosa diavolo dici? Mica esistono i personaggi!”

    Romina dice: “I personaggi esistono eccome! Mi sorprende che si cerchi ancora di negarlo dopo opere straordinarie come “Sei personaggi in cerca di autore” e dopo che tutti noi scrittori non facciamo altro che parlare di loro!”

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    • Non saprei. Di recente, ho riletto un pensiero di Carver che mi ha inoculato qualche dubbio al riguardo. Non ho ancora le idee chiare su questo argomento. Col tempo, chissà.

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  5. “In realtà la storia ha già il suo finale: bisogna solo ascoltare.” Esatto. La penso proprio così. Non “scelgo” mai un finale. Semplicemente, lascio che si formi da solo, come ultima necessaria conseguenza di tutto quello che è successo prima. Mi allargo a raccontare fin quando non sento che ogni domanda lasciata aperta ha ricevuto una risposta, senza però cominciare una storia nuova.
    Interessante l’idea che il finale di un romanzo sia già l’inizio di un altro. Ho già un altro progetto in cantiere e mi chiedo che collegamento abbia con questo.

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    • Credo che la parola “Fine” arrivi solo con la… dipartita dell’autore (che si spera il più tardi possibile!). Sia Dostoevskij che Tolstoj erano mossi da interrogativi ai quali cercavano di dare non una risposta (o forse sì, ma questo era più l’intento di Tolstoj), ma di inquadrarli, di fissarli in una cornice affinché il lettore (bravo) potesse concentrare la propria attenzione solo su di essi.

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  6. i finali possono essere i più svariati, tante quante sono le storie. L’autore può inserire il finale che predilige, ma deve avere le idee chiare e non perché un certo finale “va di moda”. Il lettore è uno strano animale, sente subito a pelle se c’è qualcosa di costruito a tavolino.

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    • Io quando devo scrivere un finale… Be’, non lo so! Nel senso che lo ignoro proprio, e mentre lo scrivo dico: “Ah, ecco! È questo!”.
      Se lo conoscessi prima, magari perché l’ho pianificato, non credo che riuscirebbe a piacermi. Deve essere una rivelazione anche per me.

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