di Marco Freccero. Articolo pubblicato nel 2013, rivisto nell’aprile del 2019.
Anton Cechov, scrittore russo: cosa scriveva a proposito dell’autorità?
Il rapporto tra un autore e il potere (l’autorità appunto), è piuttosto conflittuale, qualunque sia l’epoca. La Grecia di Pericle; la Roma di Augusto; la Firenze dei Medici; eccetera eccetera. Per questo può essere interessante scoprire che cosa ne pensasse lui, e come si comportava.
Attenzione: non si tratta di una questione solo “pratica”, nel senso di cercare di capire la linea di condotta da tenere appunto col potere. Niente del genere.
In questo articolo cercherò di illustrare semmai come uno scrittore dovrebbe scrivere (descrivere), le autorità, il potere. Perché Anton Cechov indica il suo pensiero a proposito di come “trattare” l’autorità…
Prima di inoltrarci nel pensiero di questo scrittore, una brevissima premessa (come dicono quelli bravi).
La Russia, praticamente uno stato feudale
Anton Cechov viveva in uno Stato (la Russia) che di democratico non aveva praticamente nulla. Spedire la gente in Siberia era prassi abbastanza comune (e bastava davvero poco: “Secondo me lo Zar è un bifolco!” Zaaaac, Siberia! “La zarina si veste come una poveraccia!” Zaaaaac: Siberia! Figuriamoci se uno parlava di “repubblica parlamentare”…).
La Nazione era immersa in uno stato di fatto feudale, con una corte che viveva in una specie di “bolla”, indifferente o comunque lontana dalla realtà. Realtà sulla quale si chinava, ogni tanto, per elargire regalie o… guerre.
Ci sono energie e idee che, dall’Europa, infiammano gli animi delle fasce della popolazione più abbienti: gli intellettuali soprattutto. Libertà, fraternità, uguaglianza, ma soprattutto il socialismo e la sua pretesa di creare un mondo nuovo e un essere umano radicalmente nuovo sono la miscela che sta preparando la fine della casa reale russa, nel giro di pochi decenni (Cechov muore nel 1904).
Questo è il mondo che Anton Cechov conosce: vi nasce, vi vive (fa il medico), infine vi muore.
È facile prendersela con le autorità
Il buon Cechov nel libricino “Senza trama e senza finale” (attenzione: libricino perché le sue dimensioni sono contenute, non certo per la ricchezza che racchiude), invitava a non scrivere mai di funzionari. Perché, spiegava subito dopo, descrivere autorità antipatiche è facile anzi:
Nulla è più facile che descrivere autorità antipatiche
Il motivo? Piace al lettore, ma a quello mediocre. Ecco, siamo arrivati al punto.
L’autorità, in ogni tempo e luogo, è vista come un’escrescenza che ama angariare le persone. Ai tempi di Cechov, come adesso. Ma per lo scrittore russo, chi scrive non deve percorrere strade facili.
È sufficiente scrivere una storia durissima contro le banche, per fare un esempio che di questi tempi calza a pennello; e la volta successiva scriverne un’altra dove le banche non sono attaccate ma anzi; viste sotto una luce asettica e benevola. E all’istante i lettori che in precedenza ci avevano condotto in alto, sino alle stelle, si sentiranno traditi (e finiremo nelle stalle).
Meglio tradirli subito: niente autorità, banche, politici, finanzieri…
Certo, come tutti i consigli occorre assumerli con una buona dose di discernimento. Qualcuno potrebbe osservare che è indispensabile a volte, scrivere di un’autorità. Bene, però attenzione.
Nulla è più facile che descrivere autorità antipatiche.
Vuol dire che si sta percorrendo un sentiero insidioso. Il rischio di compiacere il lettore mediocre esiste. Ed esiste, ebbene sì, il lettore mediocre. Che è tale perché lui lo vuole. Non è condannato a questa condizione dalla televisione, come si crede o si vuol far credere.
Ma è lui che sceglie con consapevolezza l’omologazione e la mediocrità.
Ma lasciamo perdere questo. Il punto è: se quello che stai combinando è facile, probabilmente stai sbagliando.
Bisogna avere paura delle cose che piacciono, che scivolano via come l’acqua di un torrente di montagna; e avere il coraggio di percorrere strade differenti.
Cechov scriveva questa frase non perché fosse indifferente alla realtà; oppure perché non se ne curasse, anzi. Viaggerà sino all’isola di Sakalin, che allora era una colonia penale, per scrivere un saggio sulle condizioni dei prigionieri. Non siamo quindi alle prese con uno scrittore che volta le spalle alle sofferenze del suo popolo; o che si considera superiore.
Bensì siamo alle prese con uno scrittore che ha scoperto la realtà, e intende rispettarla. Vale a dire?
Vale a dire: è complicata. Anche l’autorità, così “semplice” da ritrarre, lo è solo perché si ha un modo di affrontarla del tutto ideologico. Si preferisce strizzare l’occhio al lettore, invece che mostrare la sua complessità.
L’autorità è composta sempre da persone, e queste sono (sempre) un abisso. La frase di Cechov io la considero come una specie di avvertimento per chi scrive: stai distante dai luoghi comuni, gli stereotipi, e soprattutto ben lontano dallo spirito del tempo, dalle mode che vanno per la maggiore. Proprio perché la realtà è maledettamente complicata e piena zeppa di facce; di sorprese (non sempre piacevoli).
Lo scopo di un autore quindi non è solo quella di “ritrarre”; ma di celebrare il mistero dell’essere umano. E questo, sembra ancora sussurrarci Anton Cechov, non è proprio alla portata di chiunque.
“Nulla è più facile che descrivere autorità antipatiche”.
Molto vero. Da sola vale il prezzo del libro.
Bel post.
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Grazie 🙂
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Parliamoci chiaro, ascoltare il consiglio di Checov equivale a saltare di netto gran parte della produzione italiana ed europea di inizio Novecento con i tutti i suoi “antieroi” e le autorità antipatiche da ufficio (Svevo, Pirandello, Kafka). In secondo ordine, bisogna cercare di parlare a più gente possibile altrimenti si abbia il buon gusto di fare altri lavori. E’ inutile scrivere per poche persone, anzi scrivere in maniera cervellotica e astrusa è più facile che scrivere per un grande mare.
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Non sono d’accordo. Scrivere per tutti vuol dire spersonalizzare il proprio stile. Uccidere la voce narrante unica che ogni scrittore ha dentro di sé, o che si suppone abbia in quanto scrittore e lettore. Chiaramente serve tempo per trovarla, continuità, esercizio. Non tutti sanno leggere, non tutti hanno voglia di scrivere come fanno gli altri e di ciò che scrivono gli altri. L’esempio di Cechov è per l’appunto un consiglio, ma non è che uno deve seguirlo alla lettera. Probabilmente lui lo faceva perché era nato e scriveva in un’epoca e in una nazione in cui le cose erano difficili e non inventava storie di autorità antipatiche, magari anche per motivi politici, o perché ne avrebbe scritto male.
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Be’, che si trattava di un consiglio da prendere con le pinze, era evidente 🙂
Ma la riflessione che innesca è perfetta per i tempi odierni dove l’incapacità di raccontare una storia viene nascose con l’indignazione. Certo, c’è da esser indignati per un mucchio di cose, ma un autore deve essere bravo, non utile. Se è utile probabilmente non è bravo.
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Al contrario: ascoltare il consiglio di Čechov significa far piazza pulita di buona parte degli eroi che affollano la televisione e le classifiche dei libri più venduti. Lo scrittore russo aveva in mente un tipo di narrazione che non ha niente da dire, per questo prende di mira i potenti: e la storia? Ma la storia non c’è, per giove! Non ci deve essere perché il loro scopo non è osservare, ma tracciare una riga e proclamare i giusti da una parte e gli ingiusti dall’altra. Con loro che, incredibile, sono sempre dalla parte giusta.
Kafka è un classico perché era capace di andare oltre: osservava. Costruiva una storia scegliendo, gettando quello, tenendo questo e pensandoci su, riflettendoci su.
Quelli che aveva in mente Čechov guardavano l’ombelico e non scorgevano altro.
Parlare a più gente possibile: concordo. Ma è un’idea, la gente. Una categoria, e possiamo stare qui a discutere per giorni interi e non saremo mai d’accordo su una definizione univoca. Ogni autore scrive con la speranza di raggiungere la gente e la consapevolezza (chi ce l’ha), che l’arte lo terrà probabilmente distante proprio dalla gente. Scott Fitzgerald non scriveva per pochi, anzi. Se è diventato un classico lo si deve anche al lavoro di alcuni critici che l’hanno salvato dal dimenticatoio. E la gente, che leggeva?
Qui non si tratta di scrivere per pochi, ma di scrivere bene, cose efficaci e di valore. Ma la gente, semplicemente, non lo apprezza.
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Io dico solo che bisognerebbe trovare una linea di mezzo, saper unire la qualità e la capacità di parlare a più gente possibile, questo non vuol dire necessariamente svilirsi. Partiamo con l’idea che il pubblico è composto da tanti morti di sonno che devono essere “svegliati” dall’arte dello scrittore. Sta a lui sedurlo, e può benissimo farlo attraverso il suo bagaglio culturale e la qualità del suo lavoro, uniti però ad una visione e a una sensibilità “totale” che possa farlo leggere da tutti.
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Concordo (abbastanza). Per me però il pubblico è sveglissimo. Non parliamo di gente che vive in una baraccopoli e cammina scalza. Ma di persone che consapevolmente, scelgono la mediocrità. Decidono di infischiarsene e non perché la televisione li rende stupidi, ma perché la stupidità paga. E pure bene. La scrittura è comunicazione, ma se l’altro non ascolta, non è detto che sia per colpa mia. Forse non gliene importa proprio nulla…
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Sono d’accordo su tutto – sul post e sui tuoi commenti!
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Grazie!
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