Show, don’t tell: quanto è efficace oggi?


 

show don't tell

 

Mi sono domandato: ma il buon Fedor Dostoevskij potrebbe al giorno d’oggi scrivere “Il Grande Inquisitore”? E mi riferisco al fatto che la struttura di quel capitolo, al giorno d’oggi, sarebbe pesantemente riveduta e corretta da qualche editor. Quindi la risposta è: “No”, e chi legge potrebbe pensare che quella domanda non era poi così interessante.
Di certo i romanzi di Dostoevskij al giorno d’oggi vivono bene perché lui aveva uno straordinario talento che lo ha lanciato nell’Olimpo della scrittura; quindi i lettori lo leggono (o lo detestano), senza pensar troppo a certe questioni. Ma sapendo bene che al giorno d’oggi un certo modo di scrivere non troverebbe asilo. Forse…

Show, don’t tell… A chi?

Hai notato? Hai notato quanto è cambiato il modo di scrivere nel corso del tempo?
Dostoevskij spazza via buona parte delle regole, o linee guide che dir si voglia, che si leggono in certi manuali. Era un tipo prolisso, questo non ci vuole molto a capirlo. Comunicava? Eccome. Applicava la regola del “Show, don’t tell”? Be’, ai suoi tempi credo che non se ne parlasse proprio, e comunque lui era il tipo capace di infischiarsene.
Se confronto Flannery O’Connor con Fedor Dostoevskij, mi rendo conto che il russo è straordinario nel rappresentare le idee. E il “Mostra, e non avrai bisogno di spiegarlo”?
Va a farsi benedire. Però da allora le cose sono cambiate, si dice e si ripete. Abbiamo avuto guerre mondiali e regionali. La tecnica ci ha regalato radio, cinema, televisione e adesso la Rete. Un’immagine vale più di mille parole, per questo motivo è più efficace mostrare gli atti di un personaggio e da quelli capire cosa c’è dentro la mente, quali sono i suoi pensieri e intenzioni.
Ne siamo sicuri?

I tempi cambiano… O no?

Tutto questo ho iniziato a pensarlo perché… Perché una giovane donna italiana se ne è andata col marito nei territori amministrati dalla più pericolosa minaccia al mondo occidentale (qualunque cosa voglia dire “mondo occidentale”): il Daesh, chiamato Califfato. In realtà si tratta di uno stato, con scuole, economia, università, eccetera eccetera.
La maggioranza delle persone ha liquidato la faccenda con le solite categorie: ignoranza, fanatismo. Come se l’istruzione o l’educazione potessero rendere immuni da queste degenerazioni. Le persone di cultura sono sempre in prima fila nel sostenere le dittature.
Mi sono poi domandato come rendere la metamorfosi di questa ragazza, e di tanti altri individui, su carta. All’interno di una storia, insomma. Non che io lo voglia fare, ci mancherebbe. Non ne ho la capacità. Ma pensare al lavoro dello scrittore russo è stato quasi automatico. Ed è a questo punto che è scattata la seconda domanda.

Lo strumento adatto per raccontare

Vale a dire: siamo certi che la pratica “Show, don’t tell” sia davvero efficace? Sia in grado di illustrare cosa c’è nella testa di una persona? L’immagine vale più di mille parole, e possiamo essere d’accordo. Chi scrive dovrebbe essere in grado di indicare che un personaggio fa una certa cosa perché la pensa in quel certo modo. Vale sempre? Non credo. Si riuscirebbe a raccontare una storia tanto complessa come una metamorfosi senza calarsi nella testa di una persona? Mostrare, non descrivere, è davvero lo strumento adatto per raccontare quello che succede?
E se invece il metodo Dostoevskij fosse quello più efficace?
Certo, lui era un tipo che amava essere prolisso. Per alcuni, i romanzi di Dostoevskij potrebbero essere usati come esempio di cosa evitare, se non vuoi ammazzare il lettore. Ma non tutte le cose sono così semplici.
A volte il lettore lo devi mettere alle corde, perché solo così riuscirà ad acquistare una visione davvero profonda. E dal momento che non è vero che la Storia è un cammino dalle tenebre alla luce, e che la luce caccerà ogni tenebra; ma al contrario un “eterno ritorno”. Forse quel diavolaccio di russo ha da insegnarci anche in quel campo dove pensavamo risiedesse il suo difetto più grande.
C’è anche un altro aspetto da ricordare: la doppiezza degli individui. Una “brava” persona è in grado di piazzare dell’esplosivo in una metropolitana, e poi aiutare la vicina di casa, vecchina, a fare la spesa.
Lo “Show, don’t tell” mi aiuta a svelare la complessità di questo essere doppio? Oppure rappresenta la resa, l’alzare la bandiera bianca perché l’essere umano è talmente complesso, “disintegrato” che chi racconta le storie non può che limitarsi a mostrare? E mostrando, non fa che dichiarare la propria incapacità a comprendere l’essere umano?

La domanda delle 100 pistole

“Show, don’t tell” si dice. Ne siamo sicuri? E se “di questi tempi” il metodo Dostoevskij, riveduto e corretto, fosse quello più efficace?


Prima la storia, poi il lettore

15 commenti

  1. Dostoevskij è un grande tra i grandi. Tra l’altro mi sono sempre chiesta, ironicamente, come mai i grandi scrittori del passato fossero tali senza che vi fossero ancora dibattiti sullo “show don’t tell” o le fastidiose diatribe sul pov o sulle scuole di scrittura creativa. Semplicemente scrivevano, leggevano e discutevano tra di loro. In altre parole: lavoravano sodo. A me sembra che il rischio di oggi sia che tutti gli artigiani parlino di come costruire un bel mobile, e che pochi si rimbocchino le maniche e si mettano all’opera sul serio.

    Poi, appunto, tutti mostrano (“show”) e nessuno racconta (“tell”), e la scrittura inevitabilmente si appiattisce. Secondo me nella pagina c’è il momento per mostrare e quello per raccontare. Dipende. Nelle scene di battaglia è chiaro che lo “show” prevale in maniera quasi assoluta (e ho detto “quasi”). Nelle scene dove il protagonista è solo con se stesso, ad esempio in una veglia d’armi, potrebbe essere più interessante il “tell”, cioè narrare i suoi pensieri alla vigilia di un giorno che, forse, sarà quello della sua morte.

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    • Le scuole di scrittura e tutto il resto sono invenzioni recenti. E poi come dici tu parliamo di un fuoriclasse, uno di quegli autori che nascono una volta ogni secolo.
      La domanda che ha fatto scaturire il post è stata: “Questi anni troveranno qualcuno capace di raccontarli non solo come cronaca di fatti, ma anche e soprattutto come una specie di profezia del secolo che verrà?”. Certo, ci vuole un Dostoevskij, e una capacità di andare oltre i fatti, che forse non abbiamo più?

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      • In generale non è facile raccontare il tempo presente in maniera incisiva, perché la vicinanza ci rende sempre meno obiettivi. Una scrittrice unica in questo senso è Irène Némirovsky, che ammise di non essere capace di raccontare niente altro che quello che la circondava – ahimè tragico per lei. La sua descrizione dello sfollamento dei parigini sotto l’incalzare delle truppe tedesche sembra un pezzo di storia del passato, eppure era appena accaduto sotto i suoi occhi. E la sua prosa è di una lucidità davvero rara.

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      • “Suite francese” l’ho letto, molto buono (invece ho abbandonato Jezabel). È vero che occorre una certa distanza dai fatti per riuscire a scrivere, tuttavia mi chiedevo se esiste ancora la capacità, il coraggio di farlo. Oppure la piattezza dello schermo televisivo ha alla fine prevalso su ogni cosa. Chi scrive dovrebbe essere immune da questi pericoli, però non è detto…

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  2. A parte il fatto che c’è un momento per lo showing e uno per il telling in ogni storia (non si può soltanto mostrare né soltanto raccontare), il fatto di immergersi nella mente di un personaggio (cosa essenziale si scrive in prima persona o in terza limitata vicina/immersa) non esclude lo showing. C’è il momento in cui esprimi il pensiero, cioè tramite il monologo interiore, che non potrebbe mai essere mostrato in altro modo, e poi c’è quello (nella maggior parte dei casi) in cui mostri ciò che il personaggio percepisce (che si tratti di un qualcosa di esterno o interno). Sì, mostri. E riesci a farlo benissimo anche dalla sua testa. Lo fai mostrando ciò che lui percepisce, esattamente come lo percepisce, del mondo esteriore e interiore. Persino le emozioni hanno degli effetti fisici che puoi mostrare al lettore in modo che lui si suggestioni al punto tale da immaginarli su se stesso e trasformarli nell’emozione di partenza.
    Anzi, direi che narrando la storia da dentro il personaggio il “show, don’t tell” è ancora più facile da mettere in pratica, perché ha la sua massima efficacia proprio in assenza di distanza dal personaggio. Mentre, se si racconta da un punto distante dal personaggio, c’è effettivamente il rischio di diventare asettici ed essere incapaci di coinvolgere il lettore.

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    • Tutto nasce dal sospetto che forse questi anni “colossali” non hanno chi riesce davvero a raccontarli. Magari è una mia impressione, e qui ci vorrebbe un docente di letteratura italiana. Da una parte sfumature e via discorrendo, e una editoria da spiaggia che però copre buona parte dell’anno (non solo i mesi estivi). Dall’altra la mancanza di voci capaci di raccontare questo tempo. In realtà le voci ci sono (Cormac McCarthy secondo me è una di quelle), ma lui ha un “limite”. Racconta la dissoluzione del sogno americano, e ci riesce in modo epico. Ci sono autori che in modo epico raccontano quanto succede adesso? Ci saranno? Avranno la capacità di scendere in profondità o la piattezza dello schermo televisivo ha ucciso ogni voglia di narrare e comprendere che cosa c’è dietro i fatti?

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  3. Beh, io sono uno di quelli che Dostoevskij non riesce a sopportarlo ma sono d’accordo che “show, don’t tell” non sempre è applicabile ed efficace.
    Comunque poichè di parole si tratta e non di immagini, io mostro con le parole e quindi, gira e rigira, le dico. Molto più efficace è narrare per immagini, nel senso di immagini visive, come si conviene in un filmato o in una sequenza fotografica.

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  4. Io amo Dostoevskij, c’è niente da fare! Da quando “delitto e castigo” è entrato nella mia vita, l’ho subito eletto a “big” fra i big!
    Tuttavia, il problema che sollevi tu è giusto in linea teorica e come base per fare tante altre riflessioni, poi in pratica, collocare la potenza narrativa dell’autore russo ai giorni d’oggi comporta un bel po’ di parentesi da aprire. Sto famoso “mostrare e non raccontare” è una regola di scrittura creativa contemporanea che io, personalmente, non condivido tantissimo: qualche volta è più importante “dire” che “far vedere” oppure devi essere bravissimo a far capire da azioni e sguardi tutto quello che una sana descrizione dei fatti non deve dire. Una narrazione legata ai nostri giorni, un attentato, una scena di guerra, vanno raccontati…
    Boh o forse ho solo le idee confuse!
    (Come mi confondono tutte le sottigliezze legate al pov, ma questa è un’altra faccenda!)

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    • “Delitto e castigo” è una meraviglia! 🙂
      Capisco le tue obiezioni e/o riflessioni: sono sensate. Io credo che il problema sia (come ho già scritto in un altro commento, ma probabilmente si tratta di un’opinione troppo parziale) la scarsa capacità di comprendere la realtà. C’è spesso la tentazione o di nasconderla e ignorarla; oppure di piegarla ai propri fini. Dostoevskij aveva la capacità di andare oltre i fatti perché sapeva che non sono sufficienti a capire. Adesso spesso ci si ferma ai fatti perché scendere in profondità vorrebbe dire ammettere una complessità troppo scomoda.

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      • Vorrebbe anche dire avere l’incapacità di gestire una tale complessità.
        Forse pochi scrittori contemporanei possono dire di riuscirci! O forse possiamo dirlo noi che leggiamo i loro libri (pensavo a Oriana Fallaci)

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      • Uno scrittore a mio parere al livello di Dostoevskij, è Cormac McCarthy (immagino che si sia già capito però!). Trame “semplici”, storie profonde.

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  5. Ciao, seguo il tuo blog da un po’ di tempo, senza mai aver commentato. Oggi volevo dire una cosa. Leggo questo post a distanza di un po’ di mesi e mi sembra centrare il problema. Condivido l’opinione di Cristina, ovvero che spesso impieghiamo il nostro tempo a disquisire su come scrivere invece che dedicarci, appunto, a scrivere. Il mostrare anziché raccontare è, a mio giudizio, certamente un bel principio, ma credo che non sia sempre possibile né universalmente applicabile. Ognuno interpreta a proprio modo il fine ultimo della narrativa e ognuno cerca di ottenerlo con i propri mezzi.
    Oggi, a differenza di ciò che avveniva per Dostoevskij, non si può prescindere dal conoscere le regole della scrittura creativa moderna. Ma, pur conoscendole, si può comunque disattenderle perché anche questo è un mezzo per ottenere il proprio fine a proprio modo.

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    • Benvenuta.
      Le regole della scrittura creativa possono e forse devono essere disattese perché non si tratta in realtà di regole, ma linee guida. Quindi uno può usarle un po’ come vuole, purché il risultato sia interessante e comunichi. In questi ultimi tempi mi sono anche chiesto: ma chi impedisce a Sempronio Scrittore di scrivere un romanzo esattamente (be’, esattamente per modo di dire, ma ci siamo capiti), come faceva Dostoevskij? Chi glielo impedisce? Negli anni Settanta in Europa si diceva che il romanzo era morto. In Sudamerica mica lo sapevano, e infatti Garcia Marquez scrisse “Cent’anni di solitudine”.
      Si potrebbe replicare che sarebbe un’operazione di facciata: due guerre mondiali, un capitalismo sempre più feroce, terrorismo e molto altro, non possono che aver corroso e sbriciolato le idee forti di Dostoevskij. Può darsi, ma può anche darsi che ci sia la necessità di provarci. In fondo, da più parti si dice che “così non va”.

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