Credo che ci siano degli argomenti (o meglio: delle tesi; degli… inviti), di cui non ci si debba affatto preoccupare, se si decide di raccontare delle storie.
Per esempio la scrittrice Flannery O’Connor rivendicava il diritto (direi quasi il dovere), di star ben distante dall’invito di scrivere storie positive.
Ottimismo! Gioia!
Gli Stati Uniti allora erano usciti vittoriosi dalla Seconda Guerra Mondiale. Si era aperto uno sconfinato panorama di opportunità. Il nucleare avrebbe risolto tutti i problemi (a quei tempi era visto con enorme simpatia e speranza). Il modello di vita americano avrebbe portato benessere, gioia e ottimismo in tutto il mondo libero (e quello non libero, sarebbe stato liberato in un modo o nell’altro).
Eppure.
Eppure certi autori scrivevano storie tristi. Di zoticoni poveri, ubriaconi, depressi. Di poveri. E che diavolo! Basta con questa lagna. Un vero scrittore americano avrebbe dovuto al contrario scrivere del successo che l’America stava riscuotendo ovunque. Doveva celebrare le cose belle che faceva, che avrebbe fatto.
Flannery O’Connor a tutto questo replicava: “No, grazie”. E non per spirito ribelle. Al contrario.
Un buon momento per scrivere
La scrittrice statunitense, che conduceva una vita “monotona” (ah, la bellezza della vita monotona!), aveva in realtà un osservatorio privilegiato per contemplare il cammino che la società statunitense stava percorrendo.
Nel 1961 Richard Yates poteva già mostrare in “Revolutionary Road” (un tempo scrivevo recensioni, e su questo blog ce n’è una di quest’opera), che il progetto era diventato una realtà concreta e talmente pervasiva da risultare ovvia. Vero: qualcosa era ancora da sistemare. Ma si erano gettate le basi per un mondo dove se hai il denaro, hai i diritti. Un mondo solido, concreto, di gente pratica, che costruiva felicità su misura dei propri bisogni, sempre più insofferente verso qualunque idea o concetto che mettesse in discussione quanto si andava edificando. Non era la democratizzazione della felicità, o del diritto alla felicità, che si stava mettendo in pratica. Ma l’annientamento di qualunque spirito di compassione, condivisione e comunità. Tutti ostacoli fastidiosi, a volte persino pericolosi, nel perseguimento della propria “felicità”. Che si basava solo sul denaro, ovviamente.
Ti manca il denaro? Quanto ci dispiace! Adesso potresti toglierti di mezzo? Grazie.
Nel 2015 il progetto continua. Con mezzi nuovi, differenti, più raffinati. Adesso ci si può persino permettere di essere più sfrontati: si pretende.
La crisi (che per fortuna sta finendo! Per pochi) sradica vecchi diritti, li sostituisce con una generica fiducia nel “nuovo” sistema che si sta costruendo; ma stavolta, parola d’onore, non si faranno più gli errori di un tempo. La lezione è stata assimilata.
Ma certo.
Ma sicuro.
Ecco perché Flannery O’Connor diceva che questo periodo era ottimo per scrivere. Una società così perfettamente materialista offre una tale massa di storie, di riflessioni! Basta avere talento, capacità, ed evitare quello che “il lettore” vuole: storie o pepate, o rilassanti.
La domanda delle 100 pistole
Hai letto “Revolutionary Road” di Richard Yates?
No, però ho visto il film e mi è piaciuto molto.
Concordo con l’autrice, scrivere preoccupandosi di raccontare cose belle e piacevoli non è possibile, ognuno scrive per quello che sente e che “vede” al di là delle apparenze.
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Io invece il film non l’ho visto, ma ho letto il libro.
E soprattutto: ognuno scrive quello che vuole, mentre il lettore legge quello che preferisce!
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Se si scrivesse solo storie a lieto fine o che raccontano cose piacevoli si perderebbe di vista la realtà quotidiana che è di tutt’altro genere.
Quindi le storie riflettono quello che l’autore percepisce. I lettori sono liberi di scegliere le storie che gli piacciono di più.
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Esatto! E aggiungo che spesso quelli che vogliono i finali rassicuranti sono poi tra quanti li criticano perché (magari) troppo consolatori.
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E’ verissimo
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