Quando mi sono trovato nella necessità di preparare il post annunciante urbi et orbi l’uscita di “Cardiologia”, mi sono trovato nella necessità di spiegare il messaggio. Di scrivere qualcosa affinché i lettori capissero che cosa mi ero ripromesso di fare scrivendo quelle 11 storie. Lì scrivevo (tanto per cambiare), che non desideravo insegnare, né educare. Credo che sia venuto il momento di spiegare un po’ il senso di tutto questo mio farneticare.
Come? Non importa un fico secco a nessuno? Pazienza…
Facciamo finta che…
Facciamo finta di vivere in un mondo dove la televisione (soprattutto certa televisione), ha la meglio su tutto. E fa il suo lavoro, che consiste nel “mostrare i fatti”. Già qui ci sarebbe da ridire perché “i fatti” sono tali solo quando un giornalista dice: “Questo è un fatto. Ne parlo (oppure ci scrivo su un articolo)”.
Altrimenti? Altrimenti i fatti non ci sono. Non esistono.
E facciamo finta che i fatti mostrati, siano solo quello: una serie di eventi, il cui fine pare essere di evocare o rabbia, oppure impotenza.
Come dici? Che tutto questo già accade? È vero, accidenti!
E in tutto questo, quale potrebbe essere il ruolo del povero autore che, non contento della sua condizione già meschina, si auto-pubblica (quindi: il più miserrimo tra gli esseri umani)?
Vediamo: adeguarsi. Fare dell’intrattenimento. O dell’educazione. Oppure…
Dentro il mistero
Oppure il suo mestiere potrebbe essere quello di raccontare storie che non siano aria, astrazione, ma realtà. Meglio ancora (perché la realtà è fumo, aria: astrazione appunto): esperienza.
Non c’è niente di più “disturbante” dell’esperienza.
Qualcuno potrebbe osservare che esiste una forte correlazione tra il giornalista che dice: “Questo è un fatto”; e chi invece scrive e afferma: “Questa è una storia”.
Certo.
Il punto di svolta è che un autore dovrebbe (il condizionale è d’obbligo), evitare di insegnare, educare, lanciare messaggi. Ma indicare la vastità dell’essere umano, il suo mistero, il suo essere “abisso”. Per questo le storie dovrebbero davvero rompere le uova nel paniere. Non nel senso che si crede di solito.
Una storia dovrebbe trovare la sua giustificazione in sé, e basta. E un finale indigesto è il miglior servizio che un autore dovrebbe fornire ai suoi simili. Attenzione: quando scrivo “indigesto” non voglio dire che ci deve esser eun morto, una strage. Ma che dovrebbe disturbare il lettore.
E per certe persone la realtà così com’è, è qualcosa di inaudito e orribile. Quasi un’eresia.
La domanda delle 100 pistole
Ma certi finali di Stephen King non sono troppo “ripetitivi”? It (distruzione della città); Shining (esplosione dell’Overlook Hotel); Cose preziose (distruzione della cittadina).
Qualche anno fa uno scrittore (ma non ricordo il suo nome) in una intervista da Fazio diceva che la letteratura deve “disturbare” perché solo se disturba smuove qualcosa nel lettore e magari le cose possono cambiare.
Mi ricordo che il discorso mi colpì molto e mi trovò d’accordo.
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Credo che se fai una certa narrativa (o almeno ci provi), non puoi che “disturbare” 🙂
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Io ho scritto tutto un romanzo che “disturba”, quindi non posso che essere d’accordo 😉
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Io no, niente romanzi. Ogni tanto annuncio che ci sono, ho la storia e poi… Niente. Quindi d’ora in poi tacerò.
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