Perché ho scritto “Denti”? La domanda è retorica, so perché ho scritto questo racconto


Quando ho iniziato a scrivere il racconto “Denti”, (esatto, parte di Cardiologia), aveva un altro titolo. Adesso non mi ricordo nemmeno quale fosse. Ma mentre procedevo, un personaggio del racconto parla degli psicofarmaci che deve prendere ogni giorno.
E a un certo punto dice:

L’aiuto di un personaggio secondario

Ti fanno venire sonno. Non posso guidare con quella roba addosso. E se non la prendo, qui, i denti diventano più forti. E masticano, masticano, senza smettere. Di giorno, di notte, anche se prendo le pastiglie non si fermano mai. Una mattina non mi alzerò più. Mi verrete a svegliare e troverete solo dei denti. Mi avranno mangiato tutto.

Bizzarro. Perché il protagonista della storia non è chi parla, ma è suo figlio. Fa parte di una famiglia rovinata. Sono oltre il lastrico, e presto precipiteranno ancora più in basso. La classica famiglia che commette degli errori anche perché: be’, se nel giro di pochi mesi tu perdessi tutto, ma proprio tutto. Divorato da spese, avvocati, eccetera: sei certo di riuscire a muoverti senza fare sciocchezze? Io ne dubito.
Cosa volevo dimostrare con questo racconto?
Buona domanda. E adesso mi tocca rispondere, giusto?

La stupidità come scelta

Lo spirito di sacrificio.
Lo so che suona retorico, ma non mi viene in mente nient’altro.
È il classico tipo (un ragazzo che ha dovuto mollare la scuola), che trova naturale agire in quel certo modo. Gli sembra ovvio: è così che si fa. Se le cose girano male non serve la filosofia: occorre agire.
Prova a resistere: si trova un lavoro, e poi un altro. Si rende conto però che la rovina avanza, e non c’è verso di fermarla. Attorno a lui, ci saranno presto altri personaggi anch’essi privi di sale in zucca. Che spingeranno il ragazzo a una decisione. Quindi, giù il sipario.
In realtà non c’è solo lo spirito di sacrificio. Mi interessava provare a mettere in scena certe persone che paiono cieche di fronte a quanto accade a loro. Come se fossero stupide. O come se scegliessero la stupidità, la retorica, per non accettare di fare i conti con la realtà. Si hanno pochi soldi? Si spendono in un pranzo “come si deve”. E verso la fine del racconto il protagonista si rende conto che, certo, ha fatto tanto; ma non ancora tutto. Manca ancora un pezzo, deve oltrepassare la riga rossa. E lo farà, si capisce.
Ho scritto “stupidità” ma forse non è nemmeno il termine esatto. A me è capitato di incontrare persone in cerca di lavoro: bene. Allora ci sarebbe questo lavoro, da fare il sabato pomeriggio però, e sì, pure la domenica. Non c’è problema, vero? Se cerchi il lavoro, il lavoro è al primo posto, giusto?
Sbagliato.
C’è lo stadio. La ragazza, eccetera. Possiamo inserire questo modo di pensare nella stupidità? Forse; ma mi sembra comodo. C’è dell’altro. Ma non so definirlo con esattezza, quindi scriviamo pure: stupidità. Ma non è il suo vero nome.

La domanda delle 100 pistole
Se perdessi tutto, di che cosa ti preoccuperesti? (Io delle scarpe).


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4 commenti

  1. Da uomo che ha solcato i marciapiedi… Sbaglio o qui si fa una presupposizione morale del tipo “se non hai le mie scarpe/la vita inquadrata/il lavoro fisso/l’auto giusta/segui la netiquette/sposi la vicina sei stupido e hai malattie mentali”?

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  2. Quel racconto è molto bello soprattutto perché il figlio sembra l’unico a rendersi conto della situazione in cui sono e si sacrifica per tutti, anche arrivando ad accettare lavori che lo porteranno chissà dove…

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