E così sembra che sia proprio necessario parlare non di Seo e robe di quel genere lì; che portano traffico, ma non lettori. Bisogna proprio parlare delle storie, perché in questo modo, forse interessi qualcuno. E poi… Niente. Poi, niente.
La fabbrica
Comunque, uno dei prossimi racconti che saranno inseriti nella nuova raccolta di racconti si intitola (rullo di tamburi):
La fabbrica
Tutto qui? Eh, da queste parti non è che la fantasia sia galoppante; è un po’ tisica e cammina piano piano. Ovviamente la fabbrica è fallita, altrimenti non mi metterei certo a scrivere una storia del genere.
E il protagonista, con tanto di moglie e 2 figli, racconta una favola. Ma è una favola un po’ particolare, dove… Be’, però non è questo che intendo dire. Voglio parlare di altro.
Quindi adesso inizio un altro bel paragrafo, con il suo bel titolo.
Rotta verso l’ignoto (o quasi)
Di primo acchito (quanto mi piace scrivere “di primo acchito”: non lo fa quasi nessuno, hai notato?), parrebbe la solita storia frecceriana. Gente che ha perso il lavoro, e tira a campare. Insomma, la solita zuppa che il Freccero rifila ai suoi affezionati lettori. La faccenda non è proprio così. C’è la favola, innanzitutto. E poi c’è un finale che nelle mie intenzioni (riuscirci è un altro paio di maniche), intende spostare il mio raggio d’azione verso altri lidi.
Come forse ti sarai reso conto, lettore o lettrice di questo blog, io sono una persona cattiva. A me non interessa addomest… ehm, educare chi legge. Cerco solo di raccontare storie, e già questo è un impegno mica da ridere.
C’è però questo personaggio, nel finale de “La fabbrica”, che rivolge al protagonista una domanda che potrebbe (dovrebbe) indicare, a chi ha la voglia di capire, come le intenzioni dell’autore siano verso una direzione ben precisa.
Insomma: al sottoscritto non interessa una benamata fava di illustrare come la povertà stia sbriciolando interi settori della società. Ho altri interessi. E per spiegarmi chi devo tirare in ballo?
Da “Povera gente” a “Il sosia”, e oltre
Nel mio delirio, tiro in ballo il buon Dostoevskij.
Dopo aver pubblicato “Povera gente”, lo scrittore russo diventa il beniamino dei circoli progressisti (a me, per fortuna, non è successo niente del genere). Poi scrive “Il sosia” (un’opera magnifica, a mio parere, che lui considererà quasi un fiasco). Ecco: quella è la storia della svolta. Dostoevskij prende congedo da ambienti e temi che lo avevano avvicinato al circolo Belinsky, per rivolgere la sua attenzione ad altro. Per fortuna. Per questa ragione adesso abbiamo capolavori quali “Delitto e castigo” oppure “L’idiota”.
Come dici? Chi credo di essere per tracciare un paragone tra me, e il buon Fedor?
Hai ragione.
Ma in qualche modo volevo indicare che è in corso un “trasloco”. In fondo “Cardiologia” è diverso da “Non hai mai capito niente”. Benché le storie siano sempre ambientate a Savona, e trattino sempre di erbacce. C’è, tuttavia, una evoluzione nei temi. Sì, poveracci, gente a cui vanno male le cose.
Tuttavia appare in modo più nitido, il contorno di temi che vanno ben al di là della banale denuncia di disagio e di povertà. Argomenti che non mi interessano affatto: prima di tutto perché sono cattivo, poi perché voglio diventare ricchissimo.
Devo solo capire come riuscirci. No, non dico a diventare ricco: ma a scrivere quello che mi interessa.
Ci riuscirò per davvero? O si tratta in realtà di suicidio? Devi aspettare, per rispondere a queste e ad altre questioni, il prossimo autunno quando (spero) la terza raccolta di racconti, conclusiva della #trilogiadelleerbacce, sarà pubblicata.
E mi spiego pure meglio: tra John Steinbeck e appunto Dostoevskij, io scelgo il russo. Lo so che sono diversi, eccetera, eccetera. Ma lo sono soprattutto perché il buon Fedor, a differenza di John, spinge la riflessione su piani ben più elevati. Quindi un “Delitto e Castigo” avrà tra 100 anni dei lettori che lo troveranno ancora meraviglioso per il valore delle sue pagine. “Furore” di Steinbeck lo troveranno utile per capire la Grande Depressione. Ma il primo romanzo sta un paio di metri sopra il secondo.
Questo è quanto. C’è solo un problema: il sottoscritto. Di fatto so che sto lavorando per sotterrarmi…
La domanda delle 100 pistole
Come sceglieresti il titolo di una raccolta di racconti? Hai mai letto “Il sosia”?
Il titolo di un’antologia è difficile, forse più del titolo di un romanzo. Qualcuno usa il titolo di uno dei racconti, quello principale magari. Oppure scegli un titolo che evoca il tema portante. Questi mi sembrano i più logici.
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Io ho fatto così per la prima raccolta di racconti, mentre per la seconda ho cercato di trovare il “tema” che li legava. Per la terza raccolta, non so proprio…
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Per la raccolta si sceglie il titolo del racconto più importante che solitamente è anche l’ultimo.
Non ho letto il sosia, ma vorrei. Ho intravisto una raccolta di diversi romanzi di Dostoevskij, ma leggo sulle recensioni di Amazon che ci sono parecchi errori dentro, sia di traduzione che refusi vari sparsi e l’ebook ha una pessima formattazione, sono ancora alla ricerca della casa editrice che abbia pubblicato le opere di Dostoevskij in maniera decente.
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Credo che le migliori edizioni siano quelle della Garzanti: DRM social (almeno sui classici, sui contemporanei non so), e qualità Garzanti. Altri editori che praticano sconti eccessivi spesso si rivelano un pessimo affare.
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Il titolo è il dilemma più grande, in effetti usare il titolo del racconto più importante può essere un’idea. Però un titolo evocativo dei racconti contenuti può essere meglio (tutto sta a trovarlo) 🙂
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Infatti: per la terza raccolta sto raccogliendo idee su un foglio di carta, e poi tra qualche mese inizierò a restringere la scelta.
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FURORE è un romanzo immenso. Questo volevo dirti. La mia mini raccolta, due racconti lunghi, l’ho intitolata Novelle nel vento.
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Mi era piaciuto in effetti, anche se l’ho letto molti anni fa. Ma non è più il tipo di romanzo capace di affascinarmi. Un tempo ci riusciva, adesso preferisco un Dickens o un Dostoevskij.
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