Il primo racconto della raccolta “Non hai mai capito niente”, parla di un tipo che viene licenziato. E invece di parlarne alla moglie, non le dice nulla. Le racconta di essere in ferie per 3 settimane. Quando il tempo sta per scadere decide di fare con lei una gita; di prendere la macchina e girare, senza scopo, senza meta, per un’intera giornata. E…
Ma quante strade può imboccare una storia? E perché prendiamo l’Aurelia invece della Cassia? E l’Appia: cosa ha di così brutto da essere scartata?
Scrivere è anche cambiare dieta
Già. Perché.
Be’, è abbastanza semplice (per me) rispondere a domande del genere.
In realtà chi racconta storie ha sempre tra i piedi questo tipo di questioni, e le risolve di volta in volta. Siccome però al lettore non gliene importa un accidenti, passerò a un altro argomento, e spero che questo sia più interessante.
In realtà, io seguo il protagonista e so che più o meno, è un tipo al mio livello. Nessun cacciatore di cinghiali si metterebbe a cacciare tigri (se ha buonsenso), perché sa bene che non ne uscirebbe vivo. Quindi io sono conscio dei miei limiti, e mi so accontentare.
Le idee: belle, ma bisogna anche essere ben consapevoli che o si hanno le capacità, oppure non si hanno.
Un racconto come “Del tutto inaspettato” è nelle mie corde. Non solo come ambiente, ma come “tema”. Non c’è niente di psicologico, per esempio. Un tempo, volevo scrivere come Dostoevskij, e mi sforzavo di costruire storie di quel tipo. Alla fine ho compreso che non avevo i denti per quel pane, e ho cambiato dieta.
Semolino per tutti!
Rasoterra è meglio
Be’, che tu ci creda o no, ma quando finalmente ti rendi conto delle tue capacità, e smetti di volare alto… Scrivi meglio.
Prima pensi che tu hai il verbo da far arrivare ai poveri mentecatti che vivono nella tenebra. Poi: capisci che devi raccontare una storia, o più storie. Stop. È semolino? Benissimo, ma almeno non ha altre ambizioni che essere digeribile. Ci vuole anche quello, sul serio. Sono sempre più convinto che molti non lettori sono tali perché si avvicinano al libro e già a pagina 4 beccano il professorone-scrittore che sale in cattedra e spiega come deve essere organizzato tutto. Professorone-scrittore che non ha mai lavorato, perché lui ha da fare cose ben più importanti. Lui organizza, spiega, indica, educa.
E giustamente, la gente molla la lettura. Credo di poter affermare, grazie alla mia presunzione, che le mie storie sono di una semplicità, di una banalità sconcertante. Perché così è la vita di ciascuno di noi. Lineare. Banale. Semplice. Con dei lampi, degli sprazzi che durano un istante, e stop. Con degli errori, come quello commesso dal protagonista del mio racconto, che colpisce con un pugno un collega, perde il lavoro e lo nasconde alla moglie…
La domanda delle 100 pistole
Quali sono i tuoi limiti, come autore? Quante storie hai mollato perché non fanno per te?
Le idee vanno bene, ma si deve essere capaci di svilupparle. Altrimenti… è come fare un’ottima pietanza ma insipida e insignificante.
Per sviluppare un’idea vincente si devono avere le capacità. Senza se e senza ma.
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Esatto, è come la penso io. Io non ho molte capacità infatti, e mi accontento.
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IO ne ho ancora meno di te di capacità. Mi basta quel che ho.
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Accontentarsi (parlo per me), è stata la cosa più difficile.
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ma qualche volta il sacrificio paga
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Non ha niente di brutto, io la faccio ogni giorno. L’Appia, intendo! 🙂
Ho risposto alla tua prima domanda, ma per rispondere all’ultima, non sono capace di scrivere storie semplici. Mi complico sempre la vita e poi ho difficoltà a mettere insieme i cocci. La stranezza è che il mio carattere potrebbe dettarmi commedie ironiche, invece non sono capace di sollevare ilarità. Vado sempre sul pesante.
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Io ho notato che se mi complico le cose, poi tendo a mollare la storia. Perde d’interesse ai miei occhi, e lascio perdere. Può anche darsi che si tratti solo della storia sbagliata (parlo di storie che nei miei progetti dovrebbero diventare romanzi, ma stramazzano dopo qualche decina di pagine), e che se trovassi quella giusta… Ma non ne sono così sicuro.
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Capisco quello che vuoi dire, il lettore se trova solo professoroni in cattedra giustamente gli viene l’impulso di mandare lui e il suo libro a quel paese, invece mostrare la realtà quella più vicina alla gente può fare un altro effetto (tranne per coloro che nella lettura cercano un’evasione proprio da quella realtà).
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E una volta io volevo essere il professorone. Poi per fortuna ho capito (almeno spero!).
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Questo è un grosso problema che mi ha attraversato la testa più di una volta. Ridimensionare le aspettative e i desideri alla propria capacità pratica. Più volte ho rischiato di trasformare il mio romanzo in qualcosa di ingestibile per me, ed è questo il motivo principale per cui sto impiegando tanto tempo a finirlo: conciliare l’esigenza di dire quel che voglio dire, con la mia possibilità e personalità tecnica, non solo quanto so fare, ma anche in che modo lo so fare. Una bella fatica.
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Io per questo (forse), mi dedico ai racconti. Così evito di lasciarmi trascinare dentro un’avventura dalla quale non uscirò affatto. In passato ho scritto romanzi, ma non erano niente di che, quindi non valgono. Adesso le idee ci sono, ma o non le sento mie, dopo un po’, oppure sono troppo ambiziose. E poi c’è il tempo, o meglio: non c’è!
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