Be’, un po’ di tempo fa ho scritto un post dal titolo un po’ pomposo: «Incipit e scrittura», con la promessa che ci sarei tornato più avanti. E infatti eccomi qui.
Là avevo dichiarato, anzi scritto, che non c’è nulla di intoccabile, e avevo inoltre promesso di spiegare perché tra le due versioni ci fosse differenza. Lo so che non interessa un fico secco a nessuno; però ho notato questo. Se ti dai le arie da autore, le persone dopo un po’ iniziano a crederci…
Provare per credere!
Comunicare, please
La risposta ovvia e banale alla mia domanda precedente potrebbe essere: «Perché sì. Perché non andava bene.»
In questo modo abbiamo risolto il problema e possiamo passare ad altro.
E invece no. È ovvio che se ho modificato l’incipit l’ho fatto perché non mi piaceva (sarebbe curioso farlo perché mi piaceva un sacco, vero?).
Come si sa, scrivere significa comunicare, e il resto sono chiacchiere. Però sembra che comunicare, come faceva Charles Dickens oppure come fa Stephen King, sia considerato un errore. Un cedimento al popolo bue. (Dimenticavo: per gli intellettualoni TU che leggi sei il popolo bue).
Se devo essere schietto, a me non importa un accidenti di come sia il popolo. Tanto so che non ho alcun potere su di lui, e che lui, il popolo certo, cambia se lo vuole, e il resto è fuffa. Siccome non ho di queste preoccupazioni pedagogiche, mi posso dedicare a scrivere con maggiore libertà.
Pensaci un attimo. Se devi ammaestrare ed educare il popolino bue, non vivi più. Perché devi sempre studiare il modo migliore per illustrare le meravigliose e belle idee che lo faranno uscire dalla tenebra.
Quando finalmente metti da parte queste fesserie, che cosa resta? Resta tutto: la storia.
La parola.
Le persone (o forse dovevo scrivere i personaggi?).
Ma quale pressione…
Nel racconto «La gioia che ci hanno tolto» (perché è di esso che stiamo parlando) a me non interessava mostrare un quadro familiare, con lui e lei e 2 figli, ormai prossimi alla rovina. Con lui che lavora in nero e quando scopre che lei ha venduto il televisore, perde la testa.
Qualcuno potrebbe infatti pensare, leggendolo:
«Interessante. Questo mostra la pressione del capitalismo sul ceto medio, condotto alla rovina e alla disperazione. E anche gli effetti nefasti di una cultura improntata al consumismo che schiavizza l’individuo attraverso la televisione.»
Ma che hai detto?
Perché non parli italiano?
Niente del genere. Non ho scritto niente del genere e non era mia intenzione scrivere delle robe così.
A me interessava rendere omaggio a una donna (la protagonista), che come tante altre persone, è considerata poco o nulla a meno che non si trasformi in un fenomeno da baraccone, oppure in un caso umano. Non so come andrà a finire, cosa succederà dopo. E nemmeno mi interessa.
Semmai il mio scopo recondito era scrivere una storia godibile, che lasciasse qualcosa nel lettore. Che lo inducesse a riflettere su quanto succede accanto a lui, ben sapendo che la sua condotta non cambierà di una virgola finché lui non deciderà di cambiare (e di solito non accade).
Quindi cerco solo di confezionare una storia bella, nonostante i miei evidenti limiti, e che piaccia. Che comunichi. Nient’altro.
L’incipit doveva essere nitido e preciso. Credo che dovrebbe essere sempre così, ma riuscirci davvero è un altro paio di maniche. Mi piace che il lettore capisca al volo con chi ha a che fare, in modo che decida se cambiare aria, o proseguire.
Lui (il lettore), da dove arriva? Da due ore di coda sul Grande Raccordo Anulare? Da otto ore di lavoro dietro una cassa al supermercato? Bene: eccoti servito, o lettore. L’incipit mi serve per immergerti all’istante in questo mondo.
Non ti piace? Amici come prima.
Ti piace? Mi auguro che tu prosegua la lettura. Non baro: ti mostro subito atmosfera e genere.
Non solo incipit
È evidente anche ai sassi che l’incipit ha la sua importanza, ma non è certo l’elemento vincente. Ci sono un sacco di romanzi con incipit traballanti, eppure sono diventati dei classici. E un sacco di gente potrebbe affermare che i miei racconti fanno ridere dall’inizio alla fine, non perché siano divertenti. Ma perché sono ridicoli, scritti male, non succede niente, non si capisce dove sia il fatto scatenante, i dialoghi sono banali, e via discorrendo.
Rappresenta la facciata dell’edificio, l’incipit; e oltre la soglia ci deve essere il resto.
La domanda delle 100 pistole
Che ne dici?
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Dico che prima o poi dovrò leggerlo questo libro… Appena avrò l’eBook reader, che per quanto mi riguarda sono ancora ferma all’era preistorica 😉
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Davvero? Io ormai acquisto pochissimi libri cartacei. Il digitale è troppo comodo. 🙂
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Prima leggo e poi dico. Ma si passa tutto dicembre a dire “lo farò sotto le feste”, poi arrivano le feste e non trovi un briciolo per far niente (che le ferie non ci sono e quindi le “feste” sono 3 giorni di parenti) 😛
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Le festività natalizie sono un inganno, ma questo si sa. Alla fine si lavora il doppio! 🙂
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nella scrittura nulla è immutabile. Tutto scorre e si modifica. Incipit compreso. L’hai modificato? Hai fatto bene. Se ritieni il nuovo più funzionale del vecchio.
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Esatto! 🙂
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Se il precedente incipit non ti convinceva o non ti piaceva hai fatto bene a cambiarlo 😉
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È essenziale che il tono della storia sia nitido sin dal principio. 🙂
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Ho tagliato ieri un incipit simile, perché “spiegava cose” ma non faceva succedere nulla! Mi sono chiesto: cosa penserei di un incipit simile come lettore? Penserei che l’autore non sapeva raccontare e basta, e quindi ha provato a intortarmi. Così l’ho cancellato.
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L’ascia è la migliore strategia. È brutale, perché a volte una storia per “partire” bene non ha bisogno di dolcezza. Ma di un taglio netto.
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