Un po’ di giorni fa Barbara Businaro scriveva in un commento a una mia intervista sul blog Anima di carta di Maria Teresa Steri:
«Non me lo far spiaccicare anche questo, no eh! ti tiro dietro il kobo fino a Savona se si spiaccica!»
Si riferiva al protagonista del mio racconto «La gioia del mondo», che è racchiuso nella raccolta «Cardiologia». E in effetti in quel racconto non c’è nessuna tragedia, non muore nessuno. Però poteva scapparci il morto, e allora: come ho deciso di non far morire nessuno? O meglio (perché la domanda può sembrare davvero peregrina): come si prende la decisione giusta, riguardo lo sviluppo di una storia?
Perché si decide così invece di cosà?
Che significa giusta?
Prima di tentare di scovare e poi offrire la risposta, ti faccio notare che ho scritto giusta, e ho usato il corsivo. Perché una decisione giusta adesso, forse non lo sarà più tra 2 anni. La ragione è semplice: si invecchia, si fa esperienza, si leggono altri libri, si scrivono altre storie… Quindi quello che al momento in cui si scrive sembra appunto la migliore decisione possibile, anzi quella giusta, col passare del tempo si potrebbe invece scegliere qualcosa di completamente differente.
Non c’è alcuna contraddizione: è la vita. Se riprendessi i racconti di «Non hai mai capito niente», e li riscrivessi (ma non lo farò), alcuni di questi li scriverei in maniera differente. È importante ricordare che un autore non è un essere speciale, ma normale. Fa la fila in posta, nel negozio di frutta e verdura, e via discorrendo. E la sua scrittura si modifica.
Ascoltare il personaggio
Adesso torniamo al racconto: perché non c’è il morto? Perché in origine il morto c’era; nel progetto di quel racconto ci scappava eccome un cadavere (la bambina). E poi cosa è successo?
Come ho già spiegato in passato parecchie volte, io non so mai come finirà un racconto che scrivo, e nemmeno so bene cosa scriverò nel prossimo paragrafo. Devo innanzitutto scovare il titolo (Per esempio: «La gioia del mondo», appunto), poi butto giù l’incipit. E lo sistemo per bene, non posso procedere se non fila liscio. Se c’è un errore, un refuso, una ripetizione: intervengo subito. Lo limo per bene perché solo in questo modo riesco a capire che cosa scrivo.
Le idee non le ho mai chiare, me le schiarisco mentre scrivo. Esatto: mentre scrivo capisco quello che voglio dire. Imparo. Non prima.
Ma come si decide uno sviluppo, invece che un altro?
Per me ormai è piuttosto semplice: devo solo ricordarmi di ascoltare la storia. Molti credono che chi racconta storie sia un dittatore, che con i personaggi fa quello che vuole, e non deve nulla a queste cose. Tanto, mica esistono!
Credo che sia un errore madornale. Essi esistono e hanno una precisa dignità che occorre rispettare. Perché credi che un lettore caschi dentro una storia, e con tutte le scarpe?
Esatto: perché l’autore non li tratta come marionette.
Non finisce qui, perché devo ancora spiegare per quale motivo in quel racconto, non c’è nemmeno un morto!
Scrivere la storia, non la «tua» storia
Avevo iniziato a pensare a un decesso perché non avevo ascoltato la storia. Tutte le volte che non ascolto la storia, finisco in un fosso. Per fortuna, mi rendo pure conto che c’è qualcosa che non gira. Lo so che vorresti qualcosa di più scientifico, e soprattutto comprensibile.
Però tutto quello che posso dire è questo: se la storia non gira è ovvio che c’è qualcosa che non va. Non ho ascoltato. Invece di scrivere la storia, cerco di scrivere la mia storia.
Non gira significa che rileggendo si percepisce proprio che il meccanismo fa fatica. Fino a un certo punto tutto è accettabile; certo c’è ancora da rifinire qualcosa, ma funge. Almeno agli inizi, questa è la regola: la storia c’è e funge. A un certo punto non gira più: si inceppa. Oppure gira a vuoto. Mi spiace, ma non ho niente altro da aggiungere, nessun segreto o ricetta da svelare.
Non gira.
Allora torni indietro e rileggi quello che hai scritto. Perché se qualcosa non va per il verso giusto è evidente che ti sei perso per strada. Che a un certo punto hai preso la direzione sbagliata, invece di quella giusta. E sei finito fuori strada.
Quel racconto aveva preso una strada sbagliata. Ho letto e riletto un po’ di volte quanto avevo scritto e mi sono reso conto che non stavo più scrivendo la storia, ma, come ho scritto qualche riga fa, la mia storia. Ho eliminato quanto stavo scrivendo e ho ripreso a scrivere la storia.
Lo so: ti ho deluso. Speravi che io ti svelassi chissà cosa, ma non è proprio possibile. Non ho segreti, e temo anzi che il mio «sistema» funzioni solo con me, e non con te.
Concludendo? Buona scrittura!
La domanda delle 100 pistole
E tu come risolvi i «nodi» di una storia?
Abbiamo un metodo di lavoro molto simile, con la differenza che io, mentre scrivo, correggo i refusi solo se me ne accorgo, non mi fermo per fare verifiche finché non ho finito un capitolo. Poi, rileggo e faccio gli aggiustamenti del caso. Nemmeno io, comunque, sono una talebana della progettazione. Penso che, talvolta, sia lo spauracchio degli insicuri. E che affidare tutto al mentale diventi un modo per supplire alla propria incapacità di ascoltare l’energia di una storia. Energia che muta (panta rei!), e che rende obsolete soluzioni un tempo perfette.
Si vede, quindi, che hai letto Natalie Goldberg, e che hai compreso il senso delle sue parole. 🙂
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Mi pare che quello della Goldberg sia stato uno dei primi che ho letto sulla scrittura (o forse addirittura il primo).
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Cosa ci faccio con i nodi? Spesso li prendo a testate, il che già ti dice quante possibilità ho di scioglierli. Così era soprattutto in passato. Adesso do più importanza a quella spia rossa che si accende quando sto uscendo dalla storia per inseguire una mia fissa. Non che diventi facile capire che direzione prendere, ma cerco di affidarmi sempre più all’ascolto e sempre meno alla forzatura.
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Ah! Anche tu! Abbiamo un metodo di lavoro simile, allora 😉
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Di solito quando ci sono dei “nodi”… li lascio riposare. Mi sono accorta che se continuo a insistere nel dipanare la matassa, questa s’ingarbuglia sempre di più. Invece se lascio a riposo la questione, prima o poi la soluzione arriva in maniera naturale. Mi rendo conto che non è un procedimento molto ortodosso, però. 🙂
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Se però funziona, anche se non è molto ortodosso… 😉
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Avevo visto il post su Facebook e non questo. 🙂
In realtà in quel racconto mi aspettavo che un camion arrivasse all’improvviso (non aggiungo altro per non rovinare la lettura agli altri). Comunque ora che sono all’ultimo racconto di Cardiologia posso dire che mi sembra molto più “positivo” di Non hai mai capito niente. Sono sempre erbacce, ma sono erbacce che se la cavano un po’ meglio, in percentuale.
Per rispondere alla tua domanda: i nodi li lascio lì, li metto in ammollo con l’ammorbidente così poi si sciolgono da soli, con il giusto tempo.
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Questa poi! Usi l’ammorbidente! E chi lo avrebbe mai pensato 😉
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