La parola può dire tutto?


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Non è affatto detto che con la parola si possa dire tutto. È un’arma potente come sappiamo, ma pure limitata. Eppure c’è un altro aspetto che merita almeno una riflessione, anche se dopo non so proprio cosa farci. Vale a dire: ci sono esperienze che solo il silenzio può raccontare.

Il nome giusto

Parecchio tempo fa, ho terminato la lettura del diario di Etty Hillesum; un’edizione un po’ vecchia, in seguito ho scoperto che la casa editrice Adelphi ne ha pubblicato una ben più poderosa e completa.

Etty morirà ad Auschwitz il 30 novembre del 1943, e di come questo accadrà, è bene che non si sappia. I testimoni raccontano però che fino all’ultima è rimasta una persona luminosa.

Eppure, nonostante ci sia una poderosa letteratura sull’orrore dei campi di concentramento, e che si sappia tutto (ma ancora parecchio riemerge), quello che appare evidente è l’impossibilità non solo di capire, ma prima di tutto di dire. Di definire con esattezza quanto accaduto. Certo sappiamo; abbiamo foto e filmati, e libri. Eppure sappiamo anche che i testimoni, le vittime di quanto accadde, non sono neppure loro in grado di dire tutto. Il che è… grave?

Mostruoso?

Se non si definisce, se non si “chiama” col giusto nome cosa accade, come si riesce a capire? A combattere?

Da che parte si sta

E poi: non esiste il rischio di ridursi al silenzio?

Non credo affatto, ma di certo non so rispondere. Posso solo ricordare che la scrittura passa anche per la sottrazione. Perciò non sapere, non “vedere” come sono stati gli ultimi giorni di Etty Hillesum nel campo di concentramento; accontentarsi della testimonianza di chi ha avuto la possibilità di incontrarla, e di sopravvivere. Ebbene: è sufficiente. Qui c’è tutto. Nel vuoto che si apre di fronte a noi (o in noi?), già c’è, o ci dovrebbe essere, la necessità, il dovere, di mostrare chi si è e da che parte si sta.

È tutto.

La domanda delle 100 pistole

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