Questo racconto si intitola “Buon Natale”, e qualcuno potrebbe osservare che pubblicare un racconto con un simile titolo alla fine di gennaio, non sia il massimo. Può darsi. Forse perché l’ho pensato in quel periodo? Esatto, e poi ho deciso di pubblicarlo su questo blog.
Buona lettura.
Buon Natale
Il vecchio Giacomo Rizzo, detto “Pino” dagli amici, buona parte dei quali ormai occupavano piccole porzioni di terra nei cimiteri del circondario, aveva ottant’anni. E il Natale era lì, a qualche giorno. Come tutti gli anni da troppo tempo, ci sarebbe stato in casa sua il “pellegrinaggio” dei figli, delle nuore e dei nipoti. E lui “doveva” farsi trovare. Guai ad assentarsi per scendere a comprare il pane sotto casa; guai ad andare sino al giornalaio in fondo alla via o peggio, spingersi in centro città. No: doveva restare in casa ad attenderli, perché la rappresentazione potesse svolgersi secondo tutti i crismi.
Per il resto dell’anno nessuna di quelle persone si faceva vedere. Pazienza per i nipoti che non aveva educato lui, e si vedeva bene. Pazienza per le nuore e pure quelle non erano passate sotto le sue mani. Ma i figli! Qualche sberla dovevano averla ben piantata nella memoria. Ma non erano state abbastanza forti perché se solo a Natale comparivano per fare gli auguri, e tutti abitavano nel raggio di cinque chilometri da casa sua; il rispetto proprio non sapevano dove abitasse.
Una settimana prima del Natale erano arrivate due telefonate dai figli, per fissare il giorno e l’ora; le nuore erano sempre impegnatissime, e non riuscivano mai a chiamare.
Era quello il giorno. Le due famiglie sarebbero arrivate una al mattino, l’altra al pomeriggio. La prima alle undici (“Non è troppo tardi vero?”), la seconda alle tre (“Non è troppo presto? Non sei a riposare?”). Ma lui stavolta non si sarebbe fatto trovare.
I vicini lo videro uscire verso le dieci di mattina, in forma come sempre. Anzi, sorridente come capitava di vederlo assai di rado.
Prese la vecchia Panda 4×4 che i figli da anni volevano che vendesse (magari a uno di essi), ma lui si era sempre rifiutato. La mise in moto e decise, dal quartiere di Valloria, di andare a fare benzina al distributore PAM prima del rio Termine. Ci arrivò un quarto d’ora dopo; il gestore in seguito confermò che il vecchio era lucido e di buonumore.
Ripartì verso Albissola Marina, si fermò alla fermata dell’autobus a poca distanza dal Prana. Non sapeva dove andare. Lui non si era mai spinto oltre Cogoleto (a est); Finale Ligure (a ovest), Sassello e Carcare a nord. Insomma: ne aveva di mondo da vedere, eppure non sapeva che direzione prendere. Il cellulare lo aveva lasciato a casa.
La sua idea era di rientrare dopo le sei, con tutta la calma di cui era capace. Ma in quel momento non sapeva come riempire quel mucchio di ore che lo aspettavano là davanti. Il piano, che gli era parso semplice nella sua attuazione, già mostrava la corda. Ma ripartì, imprecando sottovoce, e meditando persino di tornare a casa e rassegnarsi alle due visite.
Quando arrivò, mezz’ora dopo, al passo del Giovo, svoltò a sinistra e si diresse verso Pontinvrea. Guidava con calma, senza inutili accelerazioni e con le luci di posizione accese. Superò l’abitato senza degnarlo di uno sguardo né pensando di fermarsi. Si stava rasserenando, per questo aveva acceso la radio, ma non durò molto. La musica era orribile, e le notizie non potevano mai essere migliori di quella. Però il cielo era sereno, l’aria pulita e non c’era traffico. Fuori dal paese, imboccò la strada che conduceva a Mioglia e a Pareto, e più si allontanava da casa sua, più si sentiva bene. Era felice, insomma, e osservava quel sentimento che gli solleticava la gola, il sangue nelle vene, con sorpresa. Non sapeva spiegare a se stesso da dove venisse, e per quale ragione; ma succedeva. Era così felice che avrebbe voluto fermarsi e coinvolgere anche gli altri, dimostrare insomma quella sua felicità.
Non faceva freddo, non c’era neve, né gelo, eppure nel mondo c’erano persone che se ne lamentavano. Perché non sapevano che cosa fosse l’inverno, ed erano degli stupidi: solo gli stupidi potevano avere nostalgia di quella stagione tanto feroce.
Vide alla sua destra l’insegna illuminata di un ristorante; rallentò, fermò l’automobile poco oltre perché ricordò di averci mangiato con Caterina, la scorsa estate. Lei era una donna che aveva conosciuto qualche mese prima in un circolo che si riuniva una volta al mese per difendere e insegnare il dialetto ligure, in un piccolo locale messo a disposizione dalla parrocchia. Erano entrambi vedovi, e con lei stava bene, ma i suoi figli, e le tre figlie di lei, disapprovavano. Per questo lei aveva deciso di sospendere i loro incontri. Quella giornata al ristorante era stata una delle più belle da molti anni a quella parte. Era stata di lui l’idea di trascorrerla lì, perché ne aveva sentito parlare bene; e poi perché conosceva di vista il gestore. Era più giovane di lui di cinque anni, ma entrambi avevano lavorato nella municipalizzata che si occupava della raccolta dei rifiuti. Giacomo Rizzo, nel magazzino ricambi, Gaetano Orsi alla guida dei camion, e questi una volta in pensione, aveva pensato di aprire quel ristorante, per dare un futuro ai due figli.
Restò sul ciglio della strada con il motore al minimo e la freccia inserita. Gli era venuta in mente una strana idea, davvero molto divertente. Era un po’ matta, però più la rimirava, più la trovava simpatica. C’era un elemento di disordine che poteva essere frainteso, ma l’entusiasmo che sentiva, e che lo stregava non poco, lo induceva a ignorarlo. Frugò nelle tasche dei pantaloni, prese un fazzoletto di tela, pulito e ripiegato; era verde scuro.
Spense il motore, scese, e tornò indietro, verso il ristorante. Si fermò a leggere il menù, scritto a mano su un cavalletto a poca distanza dall’ingresso. Sbirciò all’interno, dove non vide clienti, solo l’ombra di una persona che si muoveva dietro il bancone, sulla destra. Sorrise: doveva essere Gaetano. Andava tutto bene e si sarebbe divertito un sacco. Sì, era uno scherzo un po’ particolare, ma non appena fosse stato chiaro di che cosa si trattava, si sarebbero fatti tutti una risata.
Prese il fazzoletto, lo piegò a formare un triangolo. Prima di annodarselo dietro la nuca, diede un’occhiata alla strada: non c’era nessuno. Aprì la porta verso l’interno e urlò: «È una rapina! Fermi tutti!».
L’uomo dietro il bancone, coi capelli scuri pettinati all’indietro, si abbassò di scatto. Quando riemerse, teneva una doppietta in mano. La puntò su di lui. Non era Gaetano.
Accaddero due cose: ricordò che il suo amico era morto due mesi prima ucciso da un ictus; e si rese conto che non poteva più fare affidamento sulla propria memoria.
Sentì un gelo improvviso che gli bloccò i muscoli.
La doppietta sparò due volte, e lo prese nel petto. Cadde all’indietro sulla soglia e quello che lo impressionò prima di morire fu il biancore del cielo, dove la striscia di scarico di un aereo quasi vi si confondeva sino a svanire. Mormorò, o forse immaginò di farlo: «Era uno scherzo», poi chiuse gli occhi.
L’ha ribloggato su Solo io e il silenzioe ha commentato:
Marco Freccero pubblica un altro racconto inedito. A tema ‘natalizio’ ma non del tutto. Consiglio la lettura.
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Oh mamma che colpo di scena! Mi hai preso alla sprovvista.
Il tipetto se voleva uscire dal solito c è riuscito, anche se a parer mio quel pizzico di felicità provata l’ha pagata a duro prezzo.
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Ottimo 😀
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Complimenti! Mi è piaciuto molto.
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Grazie 🙂
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Ma sei proprio dispettoso, allora dillo che non ti piace il Natale 😉
Colpo di scena finale proprio riuscito!
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Io adoro il Natale. Ma anche a Natale il male “serpeggia” 😉
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Ma ma ma è Natale cxxxx!!! :O
Ecco, ho capito perché hai aspettato fine gennaio. Perché è Carnevale! Avanti, adesso come gli sceneggiatori di Beautiful resuscitalo, please. O dobbiamo aspettare Pasqua?!
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Un finale è per sempre 😉
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Incauta io, che sono lietofine-dipendente… 😉
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Sempre più sibillina! 🙂
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un immagina la doppietta ma l’indizio del gestore di carburante mi faceva pensare a un finale cruento.
Al di là di questo considerazioni spicciole è un bel racconto ben sviluppato sia nella storia sia nell’introspezione psicologica del personaggio.
Solitudine e abbandono che il nostro personaggio conosce ma cerca di esorcizzare fino al finale amaro.
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Grazie 🙂
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ben scritto
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