Un altro estratto da “La Follia del Mondo“. Il racconto si intitola: “Pugni”.
Buona lettura.
Lorenzo era un bambino di dieci anni e nella testa aveva pensieri come pugni. Nel fine settimana, con sua madre, andava dai nonni, in una grande casa alle spalle della città: lì i pugni sparivano. Diventavano come un’unghia del dito mignolo, quello sinistro. Non ne era sicuro sicuro, ma era quello che sentiva. In quel luogo che si raggiungeva attraversando campi coltivati, lui ci stava bene.
Arrivavano la mattina alle nove, con la corriera. Lui salutava prima i nonni, e subito dopo Beta, il cane pastore di cinque anni che faceva la guardia sull’aia in terra battuta. Non c’era nessuno con il quale giocare, ma lui sapeva come divertirsi. Si allontanava dalla casa senza dare peso alle raccomandazioni della madre: stare nei dintorni, non camminare nei campi seminati, non correre, non sudare che poi prendeva il raffreddore. Tutte cose che conosceva a memoria. Ormai si era convinto che essere adulti significasse ripetere le cose in modo che gli altri se le conficcassero in mente, come l’ago di una bussola, quella che due anni prima gli aveva regalato il padre.
Dava le spalle a quel torrente che d’inverno gli faceva paura, e che ora, in quella primavera torrida, era secco come non capitava da anni. Contava sino a tre, scattava in avanti e correva attraverso i campi incolti, con tutta la forza che le gambe magre gli regalavano. Se inciampava e cadeva, si rialzava e riprendeva la corsa, senza badare ai graffi alle mani, alle ginocchia sbucciate. Arrivava sino al rio che faceva da confine e separava il terreno da quello dei vicini. Allora sedeva sull’erba a prendere fiato, le gambe nel vuoto. Gli piaceva il caldo alla testa, il cuore che batteva; il mondo sembrava più buono dopo una corsa: più rotondo e con meno spigoli. Le formiche rosse gli salivano sulle mani e lo pungevano. Allora lui, con l’unghia dell’indice, le tagliava a metà, le vedeva contorcersi nel dolore, dibattersi prima di precipitare nella morte. Perché quello doveva essere il senso della morte: un precipitare, senza sapere se si atterrava e dove. Stava lì qualche minuto, poi balzava in piedi e faceva di corsa il medesimo tragitto. Lo ripeteva finché ne aveva la forza.
Una volta, mentre si riposava dopo una delle sue tante corse, aveva sentito la voce di un uomo che aveva gridato: “Mennea. Ohi, Mennea”.
altro bel frammento
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Grazie!
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ciao
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😉
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Bella l’espressione pensieri come pugni. Bel racconto anche questo.
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Grazie (vorrei capire perché WordPress blocca le tue mail…).
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Me lo chiedo anch’io…
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Lo ha fatto di nuovo… Il mistero si infittisce! 🙂
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