L’Etica in letteratura: una riflessione di Marcello Tobia


Marco Freccero logo

Oggi è un giorno un po’ particolare. Il post che leggerai (molto lungo), non è affatto mio. Troppo intelligente.

È di un amico carissimo, insegnante e teologo: Marcello Tobia. Lui ha anche un blog che però non aggiorna mai. E qualche giorno fa mi ha inviato questa riflessione sulla letteratura contemporanea, partendo da un articolo che il grande scrittore Abraham B. Yehoshua ha scritto sul quotidiano “La Stampa” qualche mese fa. Ho deciso di pubblicarlo perché contiene spunti e riflessioni interessanti (a mio parere); E concetti che condivido.

Buona giornata.

Difficoltà dell’etica in letteratura

Abraham Yehoshua1 dice bene quando sostiene essere troppo difficile (io direi rischioso, a causa dell’eventuale insuccesso) per uno scrittore elaborare un romanzo morale, didascalico, a causa della ormai articolata composizione della società pluralistica di oggi. Incontrerebbe certamente un variegato fronte di opposizione e di critica. Per questo motivo forse, prosegue, ormai si evita di muoversi su questo terreno per fermarsi a descrivere la psiche dei personaggi, le loro pulsioni, i meccanismi del loro dialogo interiore. In tal modo, sostiene, si può ottenere il consenso di tutti. Forse ha ragione. Viene però da chiedersi se sia sufficiente una radiografia dell’interiorità dei personaggi a costruire un romanzo significativo: anche qui lo scrittore israeliano fornisce una risposta convincente. Infatti, frammenti di noi stessi li possiamo ben ritrovare nell’animo dei personaggi più abbietti e meschini: la dimensione oscura dello spirito fa parte costitutiva della nostra umanità. Se così non fosse, se non avessimo con essi una certa affinità interiore non potremmo comprendere certa letteratura. Siamo tutti peccatori. Dunque, chiunque può comprendere; a lui apparterrà infine il giudizio etico su quanto narrato: sentimenti, affetti, decisioni, scelte.

Il problema della modernità

Secondo Yehoshua, questa difficoltà a prendere una posizione morale all’interno della letteratura contemporanea non è una caratteristica esclusiva della letteratura, ma è parte della modernità che, disorientata da un relativismo che è una atipica forma di nichilismo, non riesce più a definire con certezza criteri di giustizia e moralità.2

Per questo motivo, con tutti i suoi limiti, il diritto positivo rimane l’unica realtà oggettiva che la società propone per darsi un ordine, una scala di valori, sebbene mutevoli in base alle variazioni culturali e sociali del tempo. Ciò che è giusto e ciò che è da condannare sono determinati dalle sentenze forensi valide in relazione al tempo o ai governi che le elaborano. Questa ultima ratio, a ben vedere, però, è ben lungi dall’essere risolutiva. Anzitutto – e questa è la classica critica al diritto positivo – perché ogni sentenza deve in qualche modo far riferimento ad una gerarchia di valori morali per essere sostenibile. E la negazione di una oggettività rispecchia già una posizione chiara in campo morale.

Inoltre, la norma tout-court non può tener conto della complessità della personalità dell’individuo e dei fattori che possono averlo portato ad infrangerla. La norma ha bisogno di essere interpretata e per far questo c’è bisogno di altri strumenti, che afferiscono più o meno direttamente ad una scala di valori morali.
Non è infrequente infine – anzi è diventata una specie di litania – l’argomentazione che mira ad imputare la responsabilità delle azioni di un singolo ai suoi condizionamenti sociali, familiari, culturali, educativi e così via: in tal modo però il problema non è affatto risolto in se stesso, ma semplicemente spostato altrove. Si tratta infatti in realtà troppo spesso del tentativo di esonerare l’individuo dalla responsabilità personale delle sue azioni. E comunque sempre di responsabilità si parla, quando la si attribuisce alla società, così minuziosamente giudicata e pesantemente condannata. Arriviamo perciò al paradosso: come si può pensare di affidare alle istituzioni di quella società il compito di giudicare un criminale da lei stessa creato?

A partire dalla colpa

In fondo concordiamo con Yehoshua: è la fuga dalla responsabilità e dal senso di colpa la caratteristica di molta letteratura moderna – non di tutta, ovviamente – di sapore nichilista. Lo affermerà Camus, a proposito di Clamence, il protagonista della sua ultima opera, La Caduta: “ha un cuore moderno, vale a dire che non riesce a sopportare di essere giudicato.”3

A proposito di Camus, nell’articolo in questione lo scrittore israeliano dice che probabilmente Lo Straniero è l’opera che ha “segnato l’inizio di una nuova era della letteratura moderna dopo la Seconda guerra mondiale.” Perciò conviene soffermarci un attimo su questo romanzo brevissimo ma di grande successo e sulla cui interpretazione sono stati versati fiumi di inchiostro.

Le interpretazioni che ne sono state fatte sono molto interessanti perché vanno esattamente nella direzione appena descritta. Quella prevalente, a partire da Sartre, primo recensore, e dello stesso Autore, tende a farne una vittima proprio in questo duplice significato: prodotto della società e successivamente vittima sacrificale dell’ipocrisia, attraverso un rito -il processo- dai tratti di un’antica cerimonia di espiazione collettiva.4
In breve: la società produce i mostri e poi li punisce per sentirsi a posto con se stessa. Questo ragionamento può avere la propria validità e certamente può contenere una parte di verità, in certi casi. Ma il prezzo che si paga ad una visione così radicale è l’abolizione della libertà personale.

In tal caso, “pare non avanzi nulla, salvo nascondersi nel suo piccolo riparo di nevrosi e cercare di salvarsi l’onore svelando qualche altra sfumatura psicologica sconosciuta -o lamentare la superficialità della vita umana.”5

Maschere del nichilismo

Torniamo all’assenza di giudizio morale in molta letteratura contemporanea -ma potremmo includere anche moltissima fiction cinematografica. Non sono del tutto certo che si tratti del tentativo di evitare di entrare in collisione con diversi sistemi morali o di incorrere in giudizi di censura, come suggerisce Yehoshua: è difficile se non impossibile immaginare una posizione neutra riguardo ai problemi dell’uomo, pur cercando rifugio nella semplice indagine psicologica e interiore dei personaggi.

Questa scelta è comunque già in qualche modo valoriale. Si decide che la problematica morale del romanzo tradizionale non deve più entrare in modo esplicito nel romanzo moderno. Tutto ciò è senza dubbio legittimo e può inaugurare nuovi orizzonti di indagine sull’uomo e la sua psiche. “Naturalmente non credo che le spiegazioni psicologiche eliminino tutti i dilemmi morali che si possono incontrare in un testo, ma ne smorzano la portata.”6
Questo “smorzamento”, portato fino in fondo, potrebbe implicare la totale esclusione di un pur minimo orientamento etico all’interno dell’opera d’arte. Ciò equivarrebbe ad una indifferenza nei confronti di ogni tipo di morale: certa cinematografia, come anche certa letteratura, hanno questo sapore.

Ma non si sfugge alla morale come non si sfugge al linguaggio. Come per esprimermi devo utilizzare un linguaggio, anche solo per denigrarlo o negarne le possibilità gnoseologiche, ogni volta che ci si occupa dell’uomo sul piano esistenziale non possiamo sfuggire ad una logica di tipo morale. Perciò, dire che tutto è equivalente o indifferente significa già fornire una valutazione morale dei fenomeni. Allora non può essere del tutto vero affermare che nella letteratura o nell’arte in generale non esiste più morale. Esiste, eccome, anche se mimetizzata o meglio nascosta dalla fitta fioritura delle analisi psicologiche che ne prendono il posto. Si tratta di una sottile quanto seducente forma di nichilismo.7

Relativismo vs pluralismo

Dunque, ci troviamo di fronte ad un relativismo molto pericoloso, che lascia l’individuo disarmato di fronte alla pluralità. Un relativismo che, come ogni affermazione assoluta, tradisce se stesso e si trasforma in dogma. Priva l’uomo di qualsiasi riferimento in base a cui orientare le proprie scelte e al contempo della possibilità di dialogare con gli altri. Che senso ha il dialogo in una piatta dimensione dove tutto è equivalente e la diversità solo illusione? Va bene tutto ed il contrario di tutto, non c’è nulla da aggiungere o da togliere. Per molti il relativismo è sinonimo di pluralismo: qui tutti possono parlare perché tutto sta sullo stesso piano. La confusione fra relativismo e pluralismo è grande e diffusa. Tempo fa lessi su un giornale una critica a Benedetto XVI che consisteva più o meno in questo ragionamento: il papa condanna il relativismo ma dimentica che proprio grazie a questo relativismo egli può parlare. Insomma, relativismo etico = pluralismo = democrazia.

In realtà il pluralismo si basa su solide convinzioni e non sull’idea che tutto sia relativo. Se, in questo mare di equivalenza, dovesse sorgere una ideologia fra le tante – come insegnaŠigalev nei Dèmoni di Dostoevskij – che si proponesse di annientare tutte le altre per arrivare al potere, in che modo la si potrebbe combattere? Sostenendo che ha infranto le regole per cui tutto deve essere relativo? Ma questa sarebbe una verità assoluta e quindi il relativista tradirebbe se stesso. È chiaro che nulla si potrebbe opporre a quella ideologia assolutista, in quanto saremmo in possesso solo di armi spuntate, cioè di verità non cogenti o meglio di non-verità. E in quale modo, data l’equivalenza della verità di ogni idea, quella ideologia potrebbe ambire al potere? Semplice: con la forza, unico elemento di differenziazione nel grigio orizzonte privo di verità oggettive. La forza resterebbe così l’unica discriminante fra la ragione e il torto, fra la giustizia e l’ingiustizia.

Il pluralismo è cosa ben diversa. Anzitutto perché ritiene che una porzione di verità giaccia al di qua dell’espressione di ogni idea e quindi la tolleranza verso la diversità non gli deriva da un giudizio di indifferente equivalenza di tutto, ma dall’interesse che nasce dalla convinzione che altri possano offrirci qualcosa di nuovo e di più. Per tale ragione il pluralismo non permetterà mai l’instaurazione di una dittatura o l’insorgere di alcuna forma di razzismo, con la forza conferitagli da questa stessa convinzione. Proprio a motivo di questa considerazione “distributiva” della verità8 nel pluralismo ci sarà incontro e dialogo fra diversità. Il che non significa che ciascuno non ritenga di possedere “più” verità rispetto agli altri: va da sé che chi crede in una qualche forma di pensiero, religioso o politico che sia, considera questa opzione migliore di altre. Ma questo non impedirà mai di cercare altrove un ampliamento del proprio patrimonio di conoscenza.

Gli inetti

Perché la preferenza per gli inetti? Perché uomini senza qualità? Perché essi giustificano, consolano, sono in qualche modo liberatori di coscienze angustiate dalla consapevolezza della propria incapacità o indegnità o del proprio fallimento. L’inetto può essere preferibile alla persona che lotta – diciamo così in termini generic i- perché da lui non ci si sente giudicati. Non solo: ci si può sentire anche un po’ superiori e questo può procurare una certa soddisfazione. L’inetto è preferibile all’eroe perché non fa sentire inferiori o meglio non fa sentire in colpa. Inoltre, nell’epoca del nichilismo, i personaggi non possono che essere degli abulici in quanto non hanno in genere la forza di fare asserzioni sul bene e sul male o di prendere posizione contro qualcuno o in favore di qualcun altro.

Il romanzo poliziesco

Ormai va di moda il poliziesco. Assistiamo ad una vera e propria invasione del genere, accompagnata inevitabilmente al relativo abbassamento della qualità. Con questa etichetta intendo qui quei romanzi e racconti che hanno come motivo scatenante un delitto il cui autore deve essere scoperto e portato di fronte alla giustizia. Il poliziesco può assumere connotazioni “noir” per cui il “male” non coincide più solo con l’assassino, ma contagia in maniera maniera più o meno marcata anche le istituzioni e la società stessa in quanto formate da uomini con le loro meschinità e debolezze. Spesso il protagonista principale è un poliziotto, un investigatore, ma altrettanto spesso si tratta dello stesso assassino. In ogni caso, qualcuno che in qualche modo viene toccato, coinvolto dal fatto o nel fatto stesso. Questa ampia letteratura, di cui già uno dei suoi massimi esponenti, Raymon Chandler nel suo ormai classico articolo La semplice arte del delitto, lamentava la mediocrità, ha avuto da subito un successo straordinario, inaspettato, al punto che molti scrittori riuscivano a vivere di una produzione che divenne, soprattutto in USA, d’appendice. Questi avevano la caratteristica o il vezzo di descrivere vite difficili, sfortunate, violente come talvolta erano quelle dei loro autori, ma altri autori spesso ambientavano le loro storie in contesti di pressoché completa astrazione dalla realtà, con una assoluta improbabilità della trama e della costruzione del delitto, come nel caso del romanzo inglese a partire da Conan Doyle fino ad Agatha Christie.9

Il loro successo lascia stupiti:“libri che addirittura non avrebbero mai dovuto nascere si rifiutano semplicemente di morire,” lamenta ancora Chandler.“Come mandar giù il fatto che romanzi importanti e profondi, appena a qualche anno dalla prima edizione giacciano a pile negli scaffali delle librerie (…) e invece persino le vecchie signore s’azzuffino davanti allo scaffale dei polizieschi ansiose di poter metter le grinfie su qualche esemplare non meno annoso?” Alla domanda il grande scrittore non fornisce alcuna risposta, o meglio, fornisce una indicazione sulla direzione in cui indagare:

questa è una delle caratteristiche di questo genere di romanzi: quel nonsochè che induce la gente a leggerli, non passa mai di moda.”10

Lo stesso Raymond Chandler però sembra del tutto in grado fornire una risposta a questo enigma. È vero che la descrizione della società che deve fare lo scrittore contemporaneo, per essere credibile, deve rispecchiare la scoraggiante realtà di un mondo disonesto e meschino. Qui non si tratta più del semplice delitto dell’amante o del maggiordomo, ma emergono la corruzione dei politici, spesso degli stessi tutori dell’ordine, la spietata ingiustizia dell’economia, l’inadeguatezza delle istituzioni… Un mondo insomma che fa “venire la voglia di togliere il disturbo.” Ma ecco ciò che importa, ciò che fa la differenza e che non può mancare in tutto questo guazzabuglio: “occorre un principio di redenzione. Può esser pura la tragedia, (…) ma sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, che non è un tarato, che non è un vigliacco. Nel poliziesco realistico quest’uomo è il detective. È l’eroe, è tutto.”11

Colpisce che in questo contesto del tutto scevro da pur tenui nuances filosofiche o religiose salti fuori un temine così fortemente connotato come “redenzione.” Ma di questo si tratta. Non solo come necessità inerente allo sviluppo del racconto ma, molto più in profondità, come bisogno interiore di chi ne usufruisce: il lettore, ma anche lo scrittore stesso. Questo principio di redenzione altro non è che la necessità di ristabilire un ordine morale in cui il male sia riconosciuto e punito (ma questo può anche essere un sovrappiù: la cosa importante è che il male sia denunciato in quanto tale) e sia in qualche modo restaurato un senso globale dell’esistenza, anche se nelle condizioni più abbiette descritte sopra. Si tratta del riconoscimento di un ordine necessario, – come descritto in Berger12 – senza il quale fa irruzione la disperazione.

Da questo punto di vista il racconto poliziesco e ancor di più noir sono un vero e proprio esorcismo, un moderno rito di scongiuro. Non si può vivere in un mondo in cui il giusto e lo stupratore siano posti su un piano di equivalenza, un mondo in cui il carnefice e la vittima abbiano la stessa retribuzione, in cui il santo e il mafioso siano personaggi interscambiabili. Un mondo siffatto diviene irrespirabile e può sopraggiungere la tentazione di “togliere il disturbo.” Emerge nuovamente, in modo forse banalmente più esplicito ma altrettanto consistente, il problema della colpa, della sua riconoscibilità, della sua punibilità, della sua espiazione ed eventualmente anche del suo perdono.

La colpa nel sistema capitalistico

La colpa si presenta come il problema della modernità. Difficile individuarne le ragioni, la sua eziologia. Personalmente, ritengo che la società estremamente efficientista fondata sulla brama di successo, sul denaro e sull’economia abbia la sua parte di responsabilità. È forse un caso che il romanzo poliziesco nasca insieme allo sviluppo dell’economia capitalista? Come acutamente aveva già rilevato a suo tempo Thorstein Veblen, l’invidia sta ormai alla base del rapporto fra persone e fra classi sociali.13
L’invidia è il meccanismo economico che spinge non solo al guadagno ma anche al consumo, un consumo fatto soprattutto per essere sfoggiato in modo che serva da rivalsa – attraverso l’invidia altrui nei propri confronti – dell’invidia a suo tempo subìta a causa d’altri.

L’angoscia di rimanere tagliati fuori dal grande meccanismo della “scala mobile” sociale è per molti davvero grande e rappresenta un problema di non poco conto. Crea complessi inenarrabili che sfociano in sindromi depressive o in forme di violenza.14
Nelle società a capitalismo avanzato, come quella giapponese – ma anche la nostra, ormai, che si muove sulla stesso binario e nella stessa direzione – la perdita del lavoro e dello status sociale ad esso correlata è un dramma che porta al suicidio, all’allontanamento spontaneo dalla famiglia e alla riduzione all’accattonaggio. Il senso di colpa si confonde ormai con la condizione economica.15

Il superamento

In questa cornice, c’è una possibilità per la dimensione del perdono? Potrà mai il capitalismo trasgredire la ferrea legge della produttività, del guadagno e del consumo? E, più ancora, dello sfruttamento, in nome del denaro? Evidentemente no. Lo si vede dalle condizioni di ingiustizia in cui versa l’umanità. Il capitalismo non fa sconti a nessuno. Perciò, come non intende rinunciare alla manodopera a buon prezzo fornitagli dalle masse di poveri e diseredati, così non accetterà mai di disinnescare il perverso meccanismo di cui necessita al fine di incentivare costantemente i consumi e che, come abbiamo detto, crea coscienze fragili, influenzabili, incapaci di intravvedere valori per cui vivere diversi dall’avere per sfoggiare.
Chi non riesce a stare al passo con le mode ed il consumo prova vergogna: una vergogna che coinvolge anche le persone a lui più vicine, delle quali si sente responsabile per non aver saputo offrire loro i beni necessari a rimanere in gara nella grande fiera dell’ostentazione.

Il senso di colpa per una vita “non riuscita” sotto questo punto di vista sarà dunque costantemente in agguato. Soltanto chi avrà avuto la forza, il senno e l’intelligenza di non farsi coinvolgere in questa perversa considerazione della vita sarà salvo. Chi avrà considerato l’amicizia, le relazioni umane – familiari, sociali, comunitarie… come valori fondamentali, ed ancora l’arte, la riflessione, la fede come dimensioni inviolabili della maturità umana ed esistenziale, sarà libero e godrà di una ben diversa qualità della vita. Solo in questa dimensione, scevra dall’efficientismo utilitarista di cui sopra, avviene il superamento della colpa, e ritrovano senso e spazio la richiesta ed il conferimento del perdono e la pratica dell’accoglienza. La logica del lucignolo fumigante non abita i lucidi e gelidi grattacieli del capitalismo. Il pezzo rotto va sempre buttato. Non può nuocere o fallire ancora. Solo nel riconoscimento della fallibilità dell’uomo ha spazio il ricupero della relazione attraverso il perdono e l’accoglienza. Perché il senso di colpa cresce e si irrobustisce solo nella prigione che l’individuo costruisce per se stesso, fatta di egocentrismo e rivalità. È la relazione l’antidoto al senso di colpa: relazione con Dio, anzitutto, soprattutto, e relazione di amore, amicizia, fiducia, con gli altri. Tutte realtà assenti nello sdegnoso atteggiamento individualista del mondo capitalista.
In questo senso, senza timore di facili apologie, si deduce che il capitalismo non può nascere senza la distruzione delle relazioni di base – con Dio e con gli altri uomini – e che, viceversa, non può essere debellato senza la loro ricostruzione.

Un orizzonte di disperazione

Se è vero – come è vero – che la lettura, specialmente quella di più largo consumo quale quella che stiamo trattando è “evasione,”16 è necessario chiedersi da cosa si vuole evadere. Qui abbiamo cercato di evidenziarlo. Nel poliziesco e nel noir si cerca il ristabilimento di una giustizia in una società malata che spesso è nel lettore anche la proiezione di un diffuso disagio interiore. Altrimenti non ci sarebbe catarsi: la speranza del bene non può morire. La colpa, come l’orrore della morte, viene riportata all’interno di una logica che non può fallire, pena la disperazione. Come si potrebbe accettare un investigatore che truffa i propri clienti, magari poveri, magari perseguitati dalla criminalità, con la quale egli si accorda per peggiorare la loro situazione o eliminarli definitivamente? O un finale in cui i “cattivi” trionfano danzando sulla tomba delle loro vittime innocenti? In tal caso non ci sarebbe alcuna redenzione, ma solo disperazione. In tal caso la funzione liberatoria non esisterebbe più, quantomeno nei termini di cui sopra.17

È il caso di un genere noir estremo, i cui campioni sono, fra gli altri, J.H. Chase, Cornell Woolrich, J.P. Manchette, M. Carlotto. In essi troppo spesso non c’è alcuna speranza o traccia di redenzione. Il male non lascia via d’uscita: violenza, brutalità, oppressione colpiscono senza pietà e le vittime designate sono in genere i più deboli. Impensabile immaginare qualcosa di simile alla pietà o al perdono, in un mondo dove la vendetta e la sopraffazione sono l’unico linguaggio. Quale sollievo da queste letture? La catarsi che può dare la descrizione di una simile abiezione potrebbe ricordare alla lontana il piacere perverso di Clamence, ne La Caduta di Camus, nel trovare il male negli altri al fine di  alleviare il peso della propria indegnità. Oppure, una consolazione simile a quella che abbiamo visto ci si può procurare di fronte a personaggi abulici ed inetti. Ma a quale esito porta una letteratura del genere? “Conclusione a un primo livello: ribellarsi non serve a niente. Conclusione a un secondo livello: che le cose restino come sono, non si può far nulla per cambiarle.”18

Si torna dunque da dove eravamo partiti, ma in una forma aggravata. Se dapprincipio infatti l’impossibilità di una morale lasciava spazio ad una forma di nichilismo dissimulata dietro l’indagine psicologica dei personaggi, qui il nichilismo pessimista e distruttivo si disvela senza alcun ritegno, anzi con un morboso compiacimento nella descrizione dell’abiezione e della meschinità, di una realtà definitivamente soggiogata dal male.


1) Abraham B. Yehoshua,”Perché nei romanzi d’oggi il cattivo non c’è più”, La Stampa 10/11/2017, p. 26.

2) Già Faulkner la pensava così. Dai Carnets di Camus: “Faulkner, alla domanda ‘cosa pensa della giovane generazione di scrittori’, risponde: non lascerà nulla di valido. Non ha più nulla da dire. Per scrivere, bisogna aver radicate in se stessi le grandi verità originarie e dirigere la propria opera verso una di quelle o tutte quante poco per volta. Quelli che non sanno parlare della fierezza, dell’orgoglio, dell’onore, del dolore, sono scrittori senza futuro e la loro opera morirà prima o dopo di loro. Goethe et Shakespeare hanno resistito perché credevano al cuore dell’uomo. Balzac e Flaubert anche. Sono eterni”(Carnets II, p. 256).

3) Prièr ed’insérer de l’édition originale, in: OeC III, p. 770. E ancora: “il mio eroe è l’esempio perfetto di una coscienza colpevole. Porte in se stesso la rassegnazione europea del sentimento del peccato” (cit.in: P. F. Smets, La Chute, un testament ambigu. Pieces pour un dossier inachevé, University of Michigan 1988, p. 39). Lo stesso Camus affronta di petto questo tema: “qual’è la ragione di questo nichilismo che ha invaso la letteratura? La paura. Il giorno in cui gli uomini cesseranno di aver paura, allora ricominceranno a scrivere dei capolavori, delle opere che durano nel tempo” (Carnets II, pp. 256-257).Ed ancora: “nostro compito: creare l’universalità o almeno dei valori universali. Donare all’uomo la sua cattolicità” (Carnets II, p. 121).

4) Camus afferma a più riprese di voler lottare contro il nichilismo – le citazioni qui riportate lo dimostrano – ma la sua produzione è quantomeno contraddittoria. Meusault ripete più volte che una cosa vale l’altra o che una scelta o un’altra sono equivalenti, né è in grado di discriminare fra bene e male, fra ciò che si deve fare e ciò che non va fatto, anche di fronte alla violenza ad una donna. Camus dice di lui che “non ha mai iniziative” e che non prende mai posizione (Carnets II, p. 28). Tutto ciò non appare certo come esempio di lotta al nichilismo, specialmente perché l’autore stesso ne prende le difese. Lo stesso si può dire del meno riuscito Mersault della Morte Felice e del personaggio teatrale Caligola.

5) A. Yehoshua, Art. cit. Peraltro, le accuse alla società ed il nichilismo che si pretende sia il messaggio del romanzo sono in contraddizione: “rifiutare al mondo ogni significato equivale a sopprimere ogni giudizio di valore.” Inoltre, “a partire dall’istante in cui si dice che è tutto un controsenso, si dice qualcosa che ha un senso.” (Incontro con Albert Camus, a cura di A. D’Aubarède, in: A. Camus, L’estate e altri saggi solari, Milano 2003, p. 167).

6) A. Yehoshua, Art. cit.

7) Credo che il maestro assoluto nell’arte dell’astensione da ogni giudizio per lasciare spazio all’introspezione dei personaggi o del personaggio principale, seguito da vicino in tutte le sue vicissitudini, sia Georges Simenon. Lui è il perfetto nichilista, disinteressato ad ogni genere di morale, rassegnato ad una umanità fatta di compromessi, convenzioni, meschinità, ove l’amore è pressoché assente. Anche se si possono intravvedere nei suoi romanzi alcune coordinate che potrebbero far pensare all’esistenza di una certa quale inevitabilità del fatto che il male alla lunga e magari indirettamente abbia una ricaduta su chi lo compie. A questo soffocante ambiente nichilista, i cui protagonisti sono per lo più degli inetti, dei pavidi, prodotti di determinate relazioni familiari o di amicizie altrettanto mediocri, Simenon sembra voler reagire con il suo personaggio più famoso, il commissario Maigret, che ne è l’esatto contrario. Per ammissione dello stesso scrittore, egli sentiva ogni tanto la necessità di scrivere di quest’uomo saggio, profondo conoscitore dell’animo umano, burbero ma pronto alla comprensione dei drammi che alla lunga possono portare al crimine. Per Simenon certamente entrare nel personaggio di Maigret significava respirare una boccata di aria pura. Questi infatti non solo era l’opposto della stragrande maggioranza dei protagonisti dei suoi romanzi, ma l’esatto contrario dello scrittore stesso, che invece nella realtà assomigliava molto a tutte le sue ulteriori creazioni.

8) Cfr. il Logos Spermaticòs di S. Giustino.

9) “Forse gli inglesi non sono i più grandi scrittori del mondo: ma sono, senza dubbio, i più grandi scrittori insulsi” (R. Chandler, La semplice arte del delitto, Vol I, Feltrinelli, Milano 1982, p. 31).

10) Ib, pp. 21, 22.
11) Ib, p. 39. L’evidenziazione è mia.
12) Cfr. P. L. Berger, Il brusìo degli angeli, Il Mulino, Bologna 1970, p. 126.
13) Cfr. T. Veblen, La teoria della classe agiata, 1899.

14) Una società che idolatra i beni esclusivisti non potrà non diventare violenta e discriminatrice. “La società moderna è essa stessa ‘intrinsecamente criminogena’. I suoi valori fondamentali sono infatti quelli dell’individualismo possessivo, della ricchezza, del potere, del successo, del prestigio esteriore, cioè valori e beni esclusivi il cui possesso o godimento esclude il possesso e il godimento da parte di altri, e che nulla hanno a che vedere con i ‘veri valori’ per definizione inclusivi: l’amore, l’amicizia, la solidarietà, la ricerca spirituale” (Annalisa Melfi, in: Mediazione penale in ambito minorile, Corso di Formazione in Psicologia Giuridica, Psicopatologia e Psicodiagnostica Forense 2005 Associazione Italiana di Psicologia Giuridica AIPG, pg. 35). “Nella nostra società l’adesione incondizionata ai precetti consumistici è la sola scelta possibile e l’unica che può procurare il certificato di idoneità, cioè di non esclusione”. Dunque ,“ i mercati sono i primi produttori di iniquità sociale” e “quella della produzione di consumatori è l’industria più dannosa che si possa trovare” (Z. Baumann, Homo consumens, Erikson, 2007, pp. 55, 40, 39). Il fenomeno a cui assistiamo al giorno d’oggi, sempre più in aggravamento, è quello dell’odio nei confronti del povero, di colui che, con le sue apparizioni sulla scena del benessere, turba e irrita i benestanti. La sua sola presenza risulta intollerabile e si arriva a situazioni estreme di irrazionale ostilità anche da parte delle istituzioni che in certi casi, pur di cancellarne la presenza, arrivano a decisioni che violano i diritti più elementari della persona, come la proibizione dell’accesso in città o lo stazionamento ai giardini pubblici. L’assurdo ed inqualificabile si è toccato con l’ordinanza del sindaco di Como che recentemente ha addirittura minacciato di sanzioni coloro -singoli o associazioni- che vogliano aiutare i senzatetto. Questo tipo di odio ha radice proprio nel senso di colpa del ricco nei confronti del povero, per il quale quest’ultimo rappresenta un severo appello alla responsabilità personale nei confronti degli altri.

15) A ben pensarci, tutto questo non è forse una grande novità. Forse è un equivoco che ha radici lontane, se si pensa alla teoria della retribuzione presente nei libri sapienziali dell’A.T. e che tanto – secondo Weber e molti altri – ha influito sulla nascita e sulle ragioni addotte dal capitalismo moderno per giustificare se stesso.

16) R. Chandler, Op. cit., p. 32.

17) La totale disperazione è espressa nel racconto di Didier Daeninckx, specialista del moderno noir che potremmo definire estremo, dal titolo Esecuzione sommaria, nella raccolta Il fattore Fatale, Feltrinelli, Milano 1998. Qui lo scrittore pone fine alla vita del suo investigatore, l’ispettore Cadin, che si suicida per disperazione di fronte alla quantità di male incontrata nella sua inchiesta.

18) E. Mandel, Delitti per diletto. Storia sociale del romanzo poliziesco, EST, Milano 1997, p. 197.

2 commenti

  1. Molto interessante. Un articolo da stampare e rileggere, per rifletterci a fondo. Ho acquistato da poco un saggio di Yehoshua, intitolato Il potere terribile di una piccola colpa, che tratta proprio del rapporto fra etica e letteratura… Quando l’avrò finito ne parlerò.

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