Anton Cechov: La vita com’è, punto e basta


foto marco freccero

 

di Marco Freccero – Pubblicato il: 1 ottobre 2018

 

La materia prima di un autore indipendente è la vita, ovviamente; non credo che ci voglia molto a capirlo. Ma è bene ribadirlo perché so bene (ci sono passato pure io), che molto spesso si usa la scrittura per proporre le proprie inutili ideologie. Se sposi la giusta ideologia finisci in televisione e il tuo percorso è tutto in discesa.

Altrimenti: niente televisione, e solo tanta salita. Che però tonifica.

La risposta di Anton Cechov

Il punto è come rappresentare questa vita. Attraverso l’ideologia, per esempio. Molti adottano questo modo perché intuiscono che garantisce il riscontro più immediato. Si limitano quindi a guardare da che parte tira il vento, e lo seguono. Di solito vanno molto lontano.

Altri non adottano l’ideologia ma sposano le aspirazioni del pubblico, le assecondano, perché vogliono il successo. E chi non lo vorrebbe? Questi autori per esempio li preferisco di gran lunga agli altri. Non fanno i maestrini o le maestrine. Non si incaricano di rieducare il popolo bue. Scrivono: e ti par poco?

Però la questione rilevante rimane sempre lì, in mezzo a questa metaforica stanza: come rappresentare la vita. Questa massa di ciccia e colesterolo che sale sull’autobus, sulla metro, o guida la Fiat Panda nel traffico di Bari, Varese o Cuneo.

Il titolo di questo post contiene in realtà già una risposta, che è dell’ottimo Anton Cechov. In realtà se devo ammettere che è la risposta  che più mi piace, occorre anche aggiungere che ormai non mi soddisfa più. Anzi forse non mi ha mai soddisfatto del tutto e ho lasciato correre perché: boh!

Nella risposta di Cechov c’è più di quanto appaia. Lui per esempio afferma che:

Noi rappresentiamo la vita com’è, punto e basta… Più in là non ci farete andare, nemmeno con la frusta”.

Innanzitutto ci ricorda che la scrittura è rappresentazione. Una presentazione, insomma, che tuttavia non è proprio così. Su questo blog ho più volte scritto che la scrittura è SEMPRE manipolazione.

Le cose, gli avvenimenti di certo si sono sviluppati in quella precisa maniera, ma non vuol dire nulla. Per l’ennesima volta ribadisco: occorre ricordare che il notaio prende nota di quanto accade e lo trascrive; lo scrittore sa che quello che accade contiene più di quanto sembri. Che cosa? E io come faccio a saperlo?

L’attività di scrittura è prima di tutto cancellazione. Eliminazione. Cernita: questo via, questo lo teniamo. Perché sia alla fine presentabile. 

Tuttavia la risposta di Cechov a mio parere contiene un difetto.

E il difetto è questo. Concordo in pieno anche con la seconda parte della sua frase, là dove afferma che:

Più in là non ci farete andare, nemmeno con la frusta”.

Sono d’accordo per tutto e su tutto, ma per una ragione un po’ diversa (e qui saluto e mi allontano da Cechov). Che in là ci andrò io, da me; e non certo per obbedire alla frusta di qualcun altro, che evidentemente mi farebbe andare su strade e percorsi scelti da chi tiene ben salda in mano la suddetta frusta.

Pure questo è un argomento che in precedenza ho già affrontato su queste pagine del blog. 

Alcuni lettori hanno affermato che apprezzavano i miei racconti della Trilogia delle Erbacce perché non giudicavo. Trattavo la materia… umana con distacco e, appunto, senza giudicare.

In realtà la faccenda è molto più complicata di così. Perché se scrivi, lo fai per giudicare. Eccome.

La scrittura è un giudizio

La scrittura è un giudizio: sempre. Se non altro perché con tutti i libri che già esistono (buona parte dei quali semplicemente ottimi), l’idea di mettersi a scrivere è l’affermazione che a tutta quella mole di libri manca ancora qualcosa. Per esempio la mia voce.

E se pensi che si tratti di pura presunzione: esatto! Chi è umile legge, i presuntuosi scrivono (o almeno ci provano e come ben saprai, i risultati sono sempre incerti). 

Ma credo che vi sia anche un’altra forma di giudizio, se vogliamo così definirla. Di solito si cerca di venire a capo di questa faccenda con la vecchia domanda che recita:

Lei perché scrive?

E la risposta varia, come saprai. Peccato che sia una domanda superficiale. E la risposta sarà della medesima natura, su questo non ci sono dubbi. 

Potrebbe essere più profonda (la risposta), se fosse qualcosa del tipo:

Scrivo perché mi piace. Mi diverte”.

Sì, una simile risposta sarebbe magnifica, profondissima e persino sublime. 

Però siccome c’è questa triste consuetudine che impone all’autore di rispondere con qualcosa di rassicurante, elegante e conveniente, si evita con cura una risposta come la precedente (che è la mia), e si preferisce qualcosa come:

Per migliorare il mondo”.

Addirittura. Il mondo. Non il Paese, il continente, l’emisfero boreale; macché. Il mondo. Comprese le calotte polari, immagino. E pure i deserti (che a parer mio sono perfetti così, non hanno alcun bisogno di migliorie). 

In realtà la domanda dovrebbe essere qualcosa come:

Lei perché scrive in questo modo? Perché proprio queste storie, e non altre?”.

Allora sì che ci sono buone possibilità di avere una risposta interessante. 

Di solito queste sono domande che non si fanno mai perché si è abituati alla superficie delle cose, di tutte le cose. Invece una domanda del genere impone una risposta ben più articolata. Entra in scena l’osservazione sulla realtà (non lo sguardo che tutto abbraccia; ma l’osservazione che invece sceglie; cioè scarta. C’è una gerarchia nelle cose, e nella vita quotidiana). 

E la risposta, allora, a questa domanda più importante?

Potrebbe essere qualcosa di questo tipo:

Rappresento la realtà così com’è, punto e basta… Ma c’è dell’altro. L’essere umano è un abisso, e mentre si impone sempre più una visione superficiale e semplice della complessità della vita, chi scrive deve ribadire sia l’abisso, che la difficoltà del vivere”.

Adesso rileggo un attimo quello che ho appena scritto qua sopra. Sì, è un po’ lunghetto, me ne rendo conto, ma fa un certo effetto, non è vero? Però potevo scrivere di meglio. 

Magari qualcuno potrebbe chiedermi chi diavolo credo di essere.
Un raccontastorie: Marco Freccero.

Ah, dimenticavo. Quella mia risposta va bene per adesso. Tra qualche anno sono certo che l’essenza sarà quella; ma ci sarà qualcosa di diverso.

Alla prossima.


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4 commenti

  1. Secondo me già l’affermazione che “noi rappresentiamo la realtà com’è, punto e basta” non è corretta. Non esiste una realtà “com’è”, ma come la vediamo noi. Naturalmente per la nostra percezione questa è la Realtà con la maiuscola, e fatichiamo a immaginare che altri la vedano diversa; eppure è proprio così, anzi, non ci sono due persone al mondo che la vedano davvero uguale. Ognuno di noi è un filtro, e colora ciò che vede tramite il proprio carattere, i propri sentimenti, pensieri e ricordi, quindi quello che scriviamo è “falso” in partenza. Quando selezioniamo il materiale di cui scrivere, diamo un certo taglio alla storia eccetera, stiamo solo proseguendo il nostro lavoro di interpretazione, non di osservazione. Del resto è questo il bello: racconto la realtà come mi sembra che sia… e intanto io cambio, e le cose mi cambiano sotto gli occhi. 🙂

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