Il racconto inedito di ottobre di Marco Freccero


foto marco freccero

 

di Marco Freccero. Pubblicato il 9 ottobre 2018.

 

 

La lunga pausa dal blog durante l’estate ha anche prodotto una serie di brevi racconti che nel corso dei prossimi mesi troverai su questo blog.
Il primo si intitola: “Londra”. I protagonisti, di cui non cito i nomi, mi pare siano molto riconoscibili. Non si sono mai incontrati anche se il russo soggiornò a Londra, e a Londra c’era ovviamente anche lui. Qualche tempo fa qualcuno ha affermato che si sarebbero incontrati, ma in breve la notizia è stata smontata. Dickens e Dostoevskij non si sono mai incontrati…

Londra

 

«Il problema del vostro Paese è uno e solo uno, a mio parere. Avete inventato la macchina a vapore, e questo ha indotto tutti i migliori spiriti dell’Inghilterra a pensare che non c’era altro da fare che sedersi e aspettare che il progresso risolvesse tutti i problemi. Il Medioevo veniva cancellato, e si apriva un nuovo grande secolo che poi sarebbe stato seguito da un altro grande secolo e così via, così via! Ma questo, se mi posso permettere, non solo è ridicolo, con tutto il rispetto che vi devo perché io sono ospite del vostro Paese e voi mi onorate della vostra presenza e quindi non dovrei parlare in questa maniera. È solo superstizione. Peggio di quella che c’è in Italia, un grande Paese che i gesuiti hanno ridotto a un guscio vuoto. Ed è peggio la vostra superstizione di quella dei cattolici perché quella almeno ha una possibilità su un milione, su un miliardo, di trovare la verità, e redimersi tornando al vero Cristo che è custodito dalla sola Chiesa rimasta. Perché quella di Roma non è una Chiesa, è una caricatura, peggio ancora, una porcheria. Ma cacciando il papa… E voi che farete? Getterete nella Manica, nel Tamigi, le vostre macchine?».

L’uomo che ascoltava si passò una mano sulla barba, senza fretta, il volto concentrato, lo sguardo basso. Era seduto su una poltrona, con scarpe nere lucidissime e un vestito scuro, con un panciotto color vinaccia. L’interprete finì la traduzione, mentre chi aveva parlato, passeggiava avanti e indietro, e spargeva la cenere di sigaretta sul tappeto.

Infine l’uomo seduto in poltrona disse: «Avete ragione. Il mio giudizio col tempo si è mutato, sapete? Ero certo, certissimo che alla lunga il buono che c’è nell’uomo avrebbe prevalso. Io credevo, e ne parlo ormai al passato, che la bontà e la comprensione avrebbero trionfato, si sarebbero in un certo qual modo infuse… Sì, infuse, anche se pare qualcosa di strano e romantico da dire; e infine il nostro Paese avrebbe scampato il pericolo. L’enorme pericolo che nessuno, nemmeno la nostra monarchia può, temo, evitarci. Un mondo bruto e brutale, soprattutto verso i più deboli, i più indifesi. Sapete bene, credo, come è stata la mia infanzia. L’orrore che voi forse avete scorto passando in carrozza per certe vie, o forse intuendolo soltanto perché di certo vi hanno risparmiato la vista su certi quartieri, è nulla in confronto a quello che accade ai bambini. Oh! Non potete immaginare come le loro intelligenze siano abbruttite dalla violenza, dalla fame. Io conosco, io so di cosa parlo». 

Il traduttore terminò il suo lavoro. L’altro uomo si era fermato alla scrivania, e dopo aver schiacciato nel posacenere una sigaretta, ne aveva accesa un’altra all’istante. Era pallido, smagrito, con una luce negli occhi che pareva lanciare lampi. Svuotò d’un fiato la tazza di tè poggiato su un tavolino accanto alla finestra, infine annuì e riprese a parlare.

«Esattamente! È quello che desidero dire anche io. Sapete, ve lo voglio rivelare. Ho in testa da un po’… Oh! Se avessi il tempo! Questo chiedo io, un po’ di tempo, una scrivania in ordine, un poco di tranquillità per scrivere le mie opere. Comunque, che dicevo? Sì, ora ricordo: ho in mente una storia che ha come protagonisti i bambini. Non pensate che siano il solo raggio di sole che Dio manda su questa Terra? Io lo credo con forza, deve essere così, deve essere assolutamente così! Eppure noi non facciamo altro che opprimerli, sporcarli, renderli meschini e viziosi come siamo noi». L’uomo si batté il petto con forza, poi tossì.

«Senza dubbio». Rispose l’altro uomo dopo che il traduttore tacque. «Dappertutto qui a Londra è depravazione, sporcizia e vizio. E siamo nella capitale! Voi non potete immaginare, proprio non lo potete, che cosa accade altrove. Altrove è cento volte peggio di qui, perché qui almeno si prova a gettare la polvere sotto il tappeto. Eppure, dappertutto è sporcizia, lordume. L’alcol scorre a fiumi, tutti si ubriacano, uomini, donne, sino a perdere conoscenza, perché è esattamente quello che vogliono. Eppure alcuni tra le menti più fini dell’Inghilterra affermano qualcosa di incredibile. Vale a dire che tutto si risolverà a breve. Sì, adesso è così, ed è terribile, ma presto ogni cosa si sistemerà da sé. E sapete come immaginano che accadrà? Be’, secondo il principio della marea, caro amico mio! Sissignore! Ve lo ripeto: l’essere umano, questa creatura che Dio ha levato dalla polvere, dal fango, si sistemerà grazie alla marea! Questi signori, coi loro maggiordomi, e carrozze, e cavalli, e moglie e amanti, e poi ancora case e quadri e tappeti, dicono che come la marea alza tutte le barche, ebbene: pure il progresso salverà tutti. Capite? Capite? È follia pura. La più grande opera di Dio, l’uomo, ridotta a una barca!». 

Ci fu silenzio per qualche istante. Infine l’altro uomo, che continuava a fumare e a passeggiare dalla porta alla finestra, e viceversa, disse: «Temete di non avere il tempo di dire tutto quello che dovete dire?».

«Certo. Per questo pianifico tutto, anche i dettagli. E poi quando è il momento, mi siedo alla scrivania e scrivo. Scrivo sin quasi a perdere la cognizione non solo del tempo; ma di me stesso».

«Come vi invidio! Io invece sono oppresso, non avete idea di quanto io sia oppresso. Parenti, conoscenti, che bussano sempre alla mia porta, ogni giorno, a chiedermi soldi, soldi, soldi. Mi guardano come a un salvatore, ma in realtà desiderano solo spolparmi! A volte vorrei restare all’estero per sempre, così non li avrei sotto gli occhi ogni minuto della giornata. Però io non posso scrivere senza avere davanti a me l’uomo russo. Devo vederlo all’opera, diciamo così, altrimenti…». 

L’uomo seduto fece un respiro profondo quando il traduttore finì. «Lo stesso vale per me. Sapete, viaggio abbastanza. Anche in America. Ma poi torno sempre qui. In questa città, in mezzo alla sozzura, alla depravazione che persino i muri spurgano. Non ne posso fare a meno. A volte penso di essere malato. E mi chiedo che malattia è».

«L’uomo». Rispose l’altro; schiacciò una sigaretta nel posacenere e ne accese un’altra. «Siamo entrambi malati di questa patologia unica in tutto l’universo: l’uomo».

«Nemmeno i medici sono così coscienziosi come lo siamo noi, temo. Nello studiarla».

L’uomo in piedi soffiò il fumo verso l’alto, chiese: «Pensate voi che in questo universo ci siano altri uomini?».

«Spero di no».

Prese la tazza del tè ma era vuota. La posò. «Perché ritenete questo?».

«Non credo che l’universo, pur nella sua fredda e insensibile logica, riuscirebbe a sopravvivere a lungo, di fronte alla sofferenza che anche questi altri esseri spargerebbero a piene mani. Non ce la farebbe».

L’uomo in piedi si bloccò: «Avete ragione. È un miracolo di Dio che questo mondo non muoia ora».

«Sì» disse l’altro. «È un autentico miracolo». Poi osservò il suo interlocutore. «Non è che stiamo diventando cattolici? I miracoli sono roba loro, o sbaglio?».

Il traduttore terminò; scoppiarono a ridere tutti e tre.


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