Pubblicato il 16 ottobre 2018.
In giro si legge che l’autopubblicazione è un fallimento perché solo un’infima percentuale di autori indipendenti raggiunge notorietà e successo. Si citano i soliti nomi (e quasi mai Carla Monticelli o Francesco Zampa) e da questo si arriva alla solita conclusione.
È un fenomeno di pura fuffa.
Come siamo arrivati a questo “collasso intellettuale” dove solo il successo e la notorietà conta?
Per quale motivo la “libertà” dell’autopubblicazione deve ridursi a una mera riproduzione dei pochi casi di successi che accadono? E soprattutto: perché questi discorsi non si fanno mai per le case editrici?
In questo articolo leggerai:
- Il successo è (spesso) frutto del caso
- Ci sono troppi lettori, non troppo pochi
- Fatti la giusta domanda. E rispondi
- Le case editrici sono potenti. E vecchie

Il successo è (spesso) frutto del caso
Prima di tutto: se sfoglio il catalogo di Mondadori o Einaudi, o della casa editrice che preferisci, scopro senza alcuna sorpresa che molti autori lì pubblicati non li conosce nessuno.
Sono in quella prestigiosa scuderia e non vendono. O vendono poco. Poche apparizioni in televisione, o alle fiere; vendite modeste, che probabilmente nemmeno ripagano l’investimento.
È un fatto, e soprattutto è perfettamente ovvio.
La notorietà e il successo accadono per ragioni che nessuno (figuriamoci un editore), può creare o pilotare. Si sa. Così come si sa, o si dovrebbe sapere, che il successo e la notorietà non sono indice di qualità.
Ma a volte sì.
Non ci sono certezze, esatto.
Il 95% dei libri che trovi su Amazon, o in una libreria di catena, non saranno mai un successo. Forse accadrà tra 50 anni; forse non accadrà. Forse sono spazzatura, forse no.
Pure questo è ovvio e sotto gli occhi di tutti; del tutto misteriosamente non se ne fa cenno.
Per uscire da questo vicolo cieco si dice, e si ripete come degli ossessi, che occorre scrivere opere che possano incontrare un “bisogno trascurato”. O ignorato.
Harry Potter ha incontrato un bisogno ignorato. Come la trilogia di Stig Larsson. I lettori li hanno comprati (almeno agli inizi), perché queste opere rispondevano a un bisogno.
Ma quanti altri libri, forse più validi, NON hanno incontrato il “bisogno trascurato”? Tanti, probabilmente. Quindi? Davvero dobbiamo raccontare che non meritano nulla? Possiamo sul serio far passare l’idea che un’opera debba per forza di cose rispondere a certi requisiti, in caso contrario è bene che quell’opera scompaia?
Ma se anche fosse; se questa affermazione rispondesse a una regola giusta e incontrovertibile: quindi?
Ci sono troppi lettori, non troppo pochi
Prima di replicare a questa domanda, rendiamoci conto che il libro è diventato un prodotto; e questo è una buona cosa perché permette di spendere pochi euro e di avere in casa opere di ogni genere. Se poi scegli il digitale ancora meglio: di solito (ma non sempre), risparmi parecchio.
Per secoli i libri sono stati patrimonio dei ricchi. Adesso abbiamo le biblioteche che permettono a chiunque di leggere, senza spendere un euro. Per quale motivo? Per un miracolo?
No: siccome sono diventati un prodotto, grazie alla stampa a caratteri mobili di Gutenberg, il loro prezzo è sceso ma se non siamo ancora soddisfatti… Esistono i libri usati (e le biblioteche).
Non ci sono mai stati così tanti lettori come nella nostra epoca, ma gli annunciatori di sventure, di “Fine di Mondo”, non possono accettare questa realtà.
Purtroppo i pregi portano con sé pure i difetti, e non potrebbe essere altrimenti. Tutti ormai siamo certi che il metro di misura di un’opera sia solo il successo, la notorietà. Le vendite appunto. Che sono essenziali perché una casa editrice ha spese, e costi, e devono essere coperte o si finisce male.
Ormai il successo di un libro è diventato IL metro di giudizio di un’opera. Dappertutto è un giulivo decantare il bello del successo, della riuscita, e non c’è spazio per altro. E questo virus ha colpito un po’ tutti.
Sono poche le case editrici che provano ad andare controcorrente. Non che sia impossibile; ma è dura.
Il problema però non sono i pochi lettori; bensì i lettori che leggono le stesse cose, gli stessi libri, e li giudicano sempre con gli stessi parametri.
Il problema è che i lettori sono troppi, e non sanno leggere.
Potrebbe sembrare uno sfogo di chi vende poco (cioè: io). Il punto è che sì, io vendo poco, ma so anche come funziona, per riuscire a ottenere il successo, le vendite.
Sorprende assai incontrare chi invece SA, eppure affermi che solo l’autopubblicazione è il regno della fuffa. Quando lo è anche l’editoria ufficiale. Ma siamo arrivati a questo punto perché a un certo punto ci si è stancati. Si è scelto la strada più semplice. La strada che spiega le cose in questo modo:
Contano solo le vendite, il successo e la notorietà.
Stop.
Fatti la giusta domanda. E rispondi
Tutti vorremmo notorietà e successo; io per primo. Non è sempre possibile. Viene il momento delle scelte. Devi cioè decidere che cosa scrivere. E spesso la scelta ti conduce in un “luogo” che poco o nulla a che fare con la notorietà e il successo. Vale a dire: un posto dove non ci sono né successo, né notorietà.
È un errore? Non credo.
Se la scrittura è il luogo della libertà, e la Rete permette, in una certa misura, di essere liberi, è quasi automatico cogliere l’occasione. Scrivere le storie che si desidera scrivere, senza preoccuparsi del pubblico. È un suicidio?
Se si fa questa domanda ai guru la risposta è prevedibile.
Occorre invece fare a se stessi questa domanda. Anzi no. La domanda da porsi è:
Che cosa voglio scrivere?
Che cosa sono disposto a scrivere?
Davvero sono pronto a mandare al macero la mia idea di scrittura per conseguire il successo a tutti i costi?
Le case editrici sono potenti. E vecchie
Io la risposta me la sono data già da un pezzo. Poi vado a dare un’occhiata alle vendite della mia Trilogia delle Erbacce e lì vedo con chiarezza la misura della mia follia. Però, se non ci fosse stata l’autopubblicazione, non ci sarebbe stata la Trilogia delle Erbacce.
Nemmeno questo blog, che fa poche visite.
E allora?
Per me è arduo blaterare di libertà, e poi omologarsi al pensiero dominante che dice: “Bada solo alle vendite e al successo”.
Per me è sciocco relegare la libertà solo a certi ambiti (le case editrici), quando esse da un pezzo hanno smesso di guardare alla qualità, e pensano solo ai profitti. Che sono da tenere d’occhio, sia chiaro.
Ma il problema delle case editrici non è solo il profitto; è che ormai sono percepite (e questa percezione è destinata ad aumentare), come realtà ingessate, stanche e vecchie. Certo: muovono soldi, fanno parlare di sé. Organizzano fiere e feste del libro.
Ma sono vecchie. Basta vedere come affrontano il “problema” (problema?) ebook. Prima si gettano in braccia ad Amazon; poi si accorgono che Amazon ha uno scopo preciso (renderle del tutto irrilevanti).
Prima ignorano l’ebook; poi lo adottano mettendoci i lucchetti digitali, e facendo una banale conversione del file, ignorando che stanno “grattando” la crosta dell’innovazione, e che questa arriverà da altri soggetti (e sarà probabilmente davvero distruttiva).
Chi viceversa sceglie sul serio l’autopubblicazione, e di essere quindi un autore indipendente, non fa una scelta di ripiego. Ma di libertà. Non perché decide lui la copertina (affidandosi a un professionista), o il prezzo, o le modalità di promozione; niente del genere.
Non è qui la libertà.
“A libertà, a libertà, pur o pappavall l’addà pruà. E chest’è”. Come dice il poeta nel film “Il mistero di Bellavista”. Ovvero: “La libertà, la libertà, anche il pappagallo la deve provare”.
Ed è vero che “Il 95% dei libri che trovi su Amazon, o in una libreria di catena, non saranno mai un successo. Forse accadrà tra 50 anni; forse non accadrà. Forse sono spazzatura, forse no.
Pure questo è ovvio e sotto gli occhi di tutti; del tutto misteriosamente non se ne fa cenno.”
Non si parla mai delle cose “scomode”. Altrimenti poi come si fa a non far credere che il problema sia l’esaltazione degli autori self-publisher? 🙂
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Autori che spesso finiscono nelle “scuderie” delle case editrici di grido!
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Hai detto tante cose giuste, ma una mi ha colpito in particolare. “Ormai il successo di un libro è diventato IL metro di giudizio di un’opera”. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Penso che alla fine il valore di un libro si possa cogliere solo con il tempo, ovvero se sopravvive o meno agli anni, ai decenni. Ci sono romanzi che in passato hanno avuto una grande popolarità, ma poi sono caduti nel dimenticatoio perché erano solo il libro giusto al momento giusto, una moda o forse una buona operazione di marketing. E ci sono romanzi ignorati quando l’autore li ha prodotti che però ancora oggi hanno qualcosa da dire, un valore senza tempo.
Io vedo un sacco di autori che dopo aver capito come gira il mercato, si adattano. Conosco almeno un paio di autrici che scrivono molto bene e che si sono date a un certo tipo di romanzi, perché così vendono, mentre ciò che scrivevano prima era sì apprezzato ma troppo di nicchia, poco popolare. Sono scelte e non le giudico. Però penso che dobbiamo essere prima di tutto onesti con se stessi. E’ il successo quello che vogliamo? Insomma, la libertà in fondo sta tutta qui, nel potere di decidere cosa vogliamo scrivere e per quale pubblico. Al di là della modalità di pubblicazione, direi.
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Tutta la libertà del mondo. Puoi pure regalare i libri, ma senza un lettore che ti lascia, anche in privato, una opinione sia anche piccola piccola piccola piccola, forse non saremo mai soddisfatti, almeno parlo per me.
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Sì, i feedback servono, sono pienamente d’accordo. Farne a meno è impossibile. Diciamo che se c’è almeno qualcuno che dimostra piacere nel leggerci, ci sentiamo stimolati a continuare.
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Sottoscrivo.
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Esatto, hai fatto centro. Potrei scrivere “altro”? Penso di sì. Lo farò mai? No.
Sipario 😉
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quando di pubblicano per la prima volta qualcosa come sessantamila testi, esclusi manuali, enciclopedie e quelli delle strenne, (dati ISTAT 2016) la prima domanda quanta fuffa c’è? Direi molta anche troppa.
L’auto pubblicazione? Una forma di libertà.
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Direi che il 90% è (sempre) fuffa 😉
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lo credo anch’io anche se a volte si pesca bene tra quegli sconosciuti
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Be’, lo credo. Il 10% non è fuffa 😉
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se fosse così ci sarebbero seimila testi potenzialmente buoni
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Mi sembra ragionevole 😉
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ok
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La libertà è anche questo, Marco.
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Vero. Ma sentire certa gente che proclama la libertà, e poi spaccia l’omologazione: mi fa una certa impressione!
Sarebbe più coerente proclamare la libertà, e NON spacciare l’omologazione.
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Questo tuo scavare nel concetto di libertà mi è piaciuto molto. È fuorviante vedere il successo o l’insuccesso come frutto di fattori specifici. È anche molto umano, naturalmente; facciamo già fatica ad accettare che le cose non siano controllabili da noi, figurati come la prendiamo se il controllo non esiste in assoluto! 🙂
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Esatto! E mi lascia perplesso che così in tanti non capiscano (ma forse non vogliono capirlo) che il “metro” del successo non è sempre il solo metro da usare.
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Magari se ci insegnassero questo a scuola e in famiglia, almeno un po’, sarebbe di grande aiuto… invece ci tocca fare tutto da soli. 😉
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Eh, lo so! 😀
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Anche se c’è una circostanza sfavorevole: ogni contastorie desidera raccontare le sue storie a qualcuno, perciò vendere di più coincide con il comunicare di più. A questo non c’è rimedio.
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