di Marco Freccero. Pubblicato il 22 luglio 2019.
Il titolo di questo articolo doveva essere, in verità, “Che cos’è l’evento all’interno di una storia, e perché dovrebbe chiamarsi avvenimento”. Però come titolo mi sembrava un poco lunghetto.
Sono consapevole inoltre che un sacco di persone sbadiglieranno, altre mi daranno del matto, poiché un simile argomento non interessa praticamente nessuno.
Siccome questo è un blog di un autore indipendente, dovrei per forza di cose svelare aspetti più interessanti, unirmi alle polemiche in corso, prendere qualche posizione “scomoda” (cioè: comodissima per accendere le luci su questo povero ligure che racconta storie); eccetera eccetera.
Niente del genere.
Come dicono quelli che hanno studiato alla Sorbona: “Me rimbalzeno”.
Questo non attira molti lettori?
Ai lettori non importa una cippa lippa di queste faccende da lana caprina?
Peccato: ma è un problema loro, mica mio.
Comunque, se desideri (matto! Pazza!) proseguire nella lettura di questo articolo, fallo pure!
E: buona lettura.
Evento o avvenimento?
Cominciamo da una questione di parole. Si tratta sempre di una questione di parole, non è vero?
Vero.
In fondo si potrebbe chiudere già qui la faccenda affermando che “evento” e “avvenimento” sono praticamente due sinonimi; passiamo allora ad altro.
No.
Uno dei problemi di questi tempi è il progressivo distacco tra parola e persona.
Dappertutto si sente parlare che la parola è un mezzo di conversazione: non è vero?
È falso.
Prima di tutto: la parola rappresenta un luogo.
Un luogo.
Non un mezzo di espressione. Sarà anche quello: ma dopo.
Prima di tutto è un luogo. E siccome da un bel pezzo blatero che chi racconta storie deve fare conversazione… Appunto. La conversazione significa (etimologicamente): il trovarsi insieme. Dove?
Già: da qualche parte. In un luogo, appunto.
Se pensi che la parola non sia (soprattutto) un luogo: hai un problema. Magari leggi, leggi pure tanto; ma hai un problema.
Ma: evento o avvenimento?
Credo che sia preferibile il secondo rispetto al primo, e per una ragione piuttosto evidente. Avvenimento: è dinamico. Deriva da avvenire (a venire in latino), e vuol dire “che deve venire”. Vale a dire: il suo motore è già in moto, forse lo senti, ma deve ancora arrivare. Portare qui, ora, i suoi effetti. Palesarsi in tutta la sua forza eversiva (dopo per “eversiva” non mi riferisco alla rivoluzione).
Viceversa evento (dal latino evenire, che significa, appunto, accadere), mi pare abbia meno portata, meno forza. Non abbia la “spinta” proiettata nel futuro che invece troviamo nell’altra parola.
Perché si scrivono storie? (Non per la ragione che credi tu)
A questo punto ti starai domandando che cosa vuol dire tutto questo. Molto bene. Proverò a rispondere.
Tutti sanno, più o meno, che una storia è qualcosa dove accade qualcosa; e per questo si scrive. Fermo restando che ciascuno fa quello che vuole (e legge quello che preferisce), spesso e volentieri ho l’impressione che in certe storie (racconti o romanzi non importa), ci sia di certo l’evento; ma non l’avvenimento.
Per qualcuno potrebbe significa: zero. Come se mi scervellassi su come arrivare a Trieste: se con un motore a benzina oppure diesel. Qualcuno potrebbe placidamente osservare che l’importante è arrivarci, e il tipo di motore è irrilevante.
Sì e no.
Sì, perché alla fine conta il risultato (la storia gira, e tu arrivi da qualche parte).
No, perché è interessante (attenzione: interessante, vale a dire che suscita interessa e merita attenzione) capire che cosa “spinga” una storia.
Di solito si scrive perché succede qualcosa (al protagonista). Perde il lavoro, il marito, la casa, eccetera eccetera. Questo scatena la crisi, lo induce ad avventurarsi al di fuori del suo “ambiente” e alla fine questo lo modificherà forse per sempre.
Per questa ragione si scrivono le storie? La vulgata afferma di sì; pure io, ma solo sino a un certo punto.
Per esempio: in “Delitto e castigo” c’è un evento, oppure un avvenimento?
Raskolnikov e la Siberia
Il buon Raskolnikov ammazza la vecchia e poi la sorella della medesima perché… Be’, se non lo sai leggitelo, perché io non posso sempre star qui a spiegarti la storia.
È opinione comune che riscopra il Vangelo grazie a Sonia e che da lì in avanti sarà (quasi) discesa. Quindi viene spedito in Siberia, un luogo che a quanto pare è ottimo per riflessioni (sarà che il clima rigido impedisce attività all’aria aperta per gran parte dell’anno).
E invece no.
Più passa il tempo e più mi rendo conto che non è questo il nocciolo. Vale a dire: sì, c’è l’evento, ma soprattutto è una storia che parla di un avvenimento. E lo si capisce proprio dal finale che a mio parere è persino abbastanza convenzionale.
Dostoevskij lo scrive in quel modo perché deve chiudere la storia. Ma ha messo in moto una storia che proseguirà attraverso altre storie.
Dostoevskij ha innestato un avvenimento, qualcosa che deve venire. Che continuerà in altri romanzi.
Tolstoj e “Resurrezione”
Una delle opere più sopravvalutate di Tolstoj (che io adoro), è il romanzo “Resurrezione”. Lui è sempre una fuoriserie, una specie di Ferrari Testarossa. Ogni anno ci sono nuovi modelli in circolazione, ma lei, la Ferrari Testarossa, resta una pietra miliare.
Detto questo: c’è un evento, e di fatto sai già come andrà a finire. Il protagonista si rende conto di essere stato la rovina di una ragazza e inizia un lento processo di conversione che approderà, appunto, alla sua “resurrezione”. Qualcuno potrebbe a questo punto affermare che in fondo non c’è molta differenza con “Delitto e castigo” perché in entrambi i romanzi siamo alle prese con un protagonista che “diventerà”.
Invece ribadisco la differenza. Dostoevskij ci molla a un bivio. Tolstoj ci lascia sui binari. Da una parte c’è un avvenimento; dall’altra un evento.
Non sono la medesima cosa.
Quindi?
Quindi: che cosa cambia per il lettore o la lettrice? Nulla, con tutta probabilità. Però è bene ricordare, e soprattutto ribadire, che non tutti i libri sono uguali.
Che l’affermazione: “Basta leggere” è infantile.
Leggi pure quello che vuoi, ma ricorda sempre che certi libri sono ben differenti rispetto alla concorrenza.
Perché scrivo questi post assurdi?
Eh sì: perché un simile post? Boh!
Qualche tempo fa su Faccialibro scrivevo che nel 2018 ho perso 2/3000 visitatori (anche perché ho ridotto il numero di post, e ad agosto/settembre ho “chiuso”). Siccome per quest’anno prevedo di pubblicare un solo articolo alla settimana (oltre a rilanciare, di giovedì, quello del video del mio canale YouTube), prevedo di perderne almeno un altro paio di migliaia.
Teoricamente questo dovrebbe essere un motivo eccellente per lanciare l’allarme rosso (a chi diavolo venderò il mio prossimo romanzo, se perdo visitatori?).
In realtà non sono affatto preoccupato. Ormai mi sto “specializzando” in autori che hanno fatto la fame in vita, salvo poi essere rivalutati (poco), dopo la loro morte. Non ho nulla per chi ha successo, sia chiaro. Gliene auguro semmai ancora di più, secondo i suoi desideri.
Ma il successo è come un Rolex: non tutti se lo possono permettere.
Quindi procederò con questi post assurdi, che allontanano i lettori, salvo quei pochi che poi finiscono col commentare (e che ringrazio).
Post assurdi? Mica tanto. Sto sulla tua stimolante dissertazione sulle parole “avvenimento” e “evento”.
Hai una predilezione per la prima, perché ha in sè un senso dinamico che ti pace. E hai ragione, la lingua lo conferma.Ma considera anche la seconda. Evento, e- ventum e arriviamo al nostro caro latino.
Ventum Participio passato forma passiva del verbo venire (altra buona ragione per lasciarlo perdere tu dirai) Che ti piaccia o no il passivo, qui andiamo in una ltro territorio, indica un movimento, un avvicinamento. MI sono ricordata che in latino si utilizza la preposizione e o ex iù ablativo per introdurre una serie di complementi che in questo caso appaiono davvero interessanti. Quali? Il complemento di moto da luogo (da dove?) ma anche di origine o provenienza o allontanamento e separazione. Ed eccoci al unto focale della tua dissertazione: qualcosa che accade deve avvenire in un tempo preciso, ovvio, ma anche in un luogo preciso. E l’etimologia sembra proprio darti ragione. Ergo? Conoscere le parole e il loro significato originario ci aiuta a completare la comunicazione di una scena di un fatto di un racconto. Sono d’accordo con te: utilizzare come sinonimi due parole che in fin dei conti sinonimi non sono è deleterio e fuorviante. Trovo la tua ricerca del significato del tutto appropriata. E penso che sia riscontrabile anche nella tua scrittura
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Si può anche aggiungere che in realtà i sinonimi non esistono affatto, perché non ci sono due parole identiche. “Casa” e “abitazione” indicano qualcosa di ben preciso; ma sono due termini differenti 🙂
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Certo. Il significato viene abbinato ma l’etimo non mente 😉
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perdere visitatori? Se li perdi vuol dire che sono dei visitatori da nulla che cercano solo qualcuno che passi dal loro blog. Ultimamente scrivo poco e male ma i visitatori sono cresciuti. Mistero del blog.
Le storie sono frutto di avvenimenti, azioni ed eventi miscelati nelle giuste dosi.
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Il blog è il luogo del mistero per antonomasia! Articoli scritti di fretta che ottengono un sacco di lettori. Altri curati nei dettagli che nessuno legge. Boh!
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tutto vero quello che scrivi
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Avvenimento è meglio, evento mi fa venire in mente qualcosa in pompa magna ma finto, invece l’avvenimento mi sa più di vita vera.
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Vero, a questo però non avevo pensato!
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Perdere visitatori, perdere lettori… quella dell’autore indipendente (ma anche della maggior parte degli autori, credo) è davvero una vita spartana. 😉
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Altro che spartana! 😀
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Perdere 2/3000 visitatori può non essere un problema, se ne hai persi di quelli che aprono il blog, leggono il titolo e poi se ne vanno (perché hanno sbagliato ricerca da Google, perché cercano altro come contenuti, perché vogliono trovare una soluzione e non una riflessione). Quelli comunque non acquisterebbero il tuo romanzo. Meglio pochi lettori, ma buoni lettori. 😉
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Il problema è quando continui a perderne, anno dopo anno. Perché poi, alla fine, non rimane più nessuno 😀
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Finalmente! Una mente “ragionante” che non emette sentenze di ufficiale riconosciuta appropriatezza alle nefande e tragiche umiliazioni inflitte quotidianamente alla lingua italiana con la stucchevole, arrendevole, irricevibile, espressione: << Non decidiamo noi l’italiano ma i 60 milioni che lo parlano>> ; il riferimento alla “prestigiosa” accademia non è equivocabile. Le parole non descrivono la realtà; la costruiscono. La parola è sacra poiché è un atto creativo, o distruttivo. Se, come accade, agli ignoranti sono concessi megafoni, o rotative, per devastare, immiserire e svilire il linguaggio si permette che la radice della nostra cultura sia disgregata. Purtroppo una manciata di “resistenti” non fermerà il degrado del linguaggio ed il declino della civiltà che ne deriva. Grazie
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Grazie a te.
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