di Marco Freccero. Pubblicato su YouTube il 10 ottobre 2019. Ripubblicato su questo blog nel medesimo giorno.
Un libro di Stig Dagerman non è un libro qualsiasi. E “Autunno tedesco” non fa eccezione. In queste pagine Dagerman descrive il suo viaggio nella Germania polverizzata dalla guerra, tra denazificazione da operetta e desiderio di fuga.
Buona lettura! (Ma anche buona visione).
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Nel 1946, un sacco di giornalisti andarono in Germania cercando di risolvere il Grande Enigma. Vale a dire: come era possibile che il Paese di Goethe, di Beethoven, che tanto aveva dato allo sviluppo dell’Europa, fosse sprofondato nel nazismo, producendo una guerra di oltre 55 milioni di morti?
Domanda impegnativa; per questo un sacco di giornalisti si guardò bene dal dare una risposta decente.
Molti di essi si limitarono a scendere nelle cantine dove i tedeschi vivevano, affamati, infreddoliti, umiliati, per chiedere loro: “State meglio adesso, oppure quando c’era Hitler?”.
Udita la risposta, se ne andavano a scrivere l’articolo che denunciava il nazismo sempre forte, ancora da estirpare. Un sistema comodo per tacitare quella coscienza che sussurrava, in Inghilterra e pure altrove: “Ma non siamo stati complici pure noi del nazismo, agli inizi?”.
Tra questi giornalisti c’era Stig Dagerman; che giornalista non era, ma era conosciuto in Svezia perché aveva pubblicato un paio di romanzi che avevano ben impressionato.
Da quel viaggio ricava una serie di articoli, che saranno raccolti in un libro. “Autunno tedesco” è il suo titolo, in Italia pubblicato da Iperborea. La traduzione è di Massimo Ciaravolo.
Dagerman visiterà Amburgo, Berlino, Monaco e altre città tedesche. Vedrà uomini e donne che vivono coi piedi nell’acqua, al freddo, mal vestiti. E avverte: la fame non è una buona maestra per la democrazia. E l’atteggiamento da padroni dei vincitori, che si prendono le affamate ragazze tedeschi, non sarà efficace per arrivare a spedire il nazismo nella discarica della Storia.
Parlerà anche della denazificazione.
Buona parte dei nazisti se la cava alla grande. Lui scrive nel 1946, quando questa opera di “pulizia” è già avviata e tutti sono convinti che sarà un successo. Vede un ex giudice nazista, in un paese di campagna, che la sera se ne torna tranquillo alla sua casa, salutando cordialmente quelli che aveva perseguito.
Dagerman assiste anche ai processi. In uno compare un uomo che è stato nazista. Ma l’avvocato difensore fa notare che lavora per l’amministrazione degli Alleati. E siccome il regolamento non prevede di utilizzare personale compromesso col nazismo, il processo non s’ha da fare; e infatti non si farà.
Un altro uomo porta dei testimoni che dimostrano la sua “vera” natura; sì, si è iscritto al partito nazista ma solo perché stava divorziando. Oppure, perché c’era in ballo quella promozione.
Una simile opera non fu solo accolta positivamente. Alcuni accusarono Dagerman di essere troppo “umano”, comprensivo coi tedeschi sconfitti, quasi occultando la sofferenza subita dagli altri popoli.
Dagerman era anarchico, aveva sposato un’esule anarchica tedesca ed era antinazista quasi in maniera naturale.
Quando va in Germania lui esercita un’arte, e lo dichiara: l’arte di scendere in basso.
Invece di accomodarsi su uno dei tanti piedistalli pronti all’uso, come faranno buona parte dei giornalisti spediti in Germania a “comprendere” il nazismo; lui scende appunto in basso.
Perché non c’è un dolore di serie A, e uno di serie B. E classificarlo significa solo perpetrare una raffinata forma di vendetta.
Dagerman scende in basso. A differenza di tanti benpensanti svedesi che criticheranno questa sua “simpatia” per la Germania, stravaccati sui loro divani, nel tepore delle loro casette borghesi, lui scende nelle cantine e osserva.
Quello che vede, prima di ogni altra cosa, è l’essere umano che soffre. Bambino, uomo, donna, vecchio. Conosce le loro colpe, le loro responsabilità; ma il sopruso, la prevaricazione tipica di tutti i vincitori non può essere una buona medicina per curare un organismo che per anni è stato intossicato dall’ideologia nazista.
Tutta l’opera di Dagerman è sempre un scendere in basso, mettersi accanto alle persone. Il che non vuol dire che non giudicasse, al contrario. Scendere in basso, è un chiaro giudizio nei confronti di quelli (e sono sempre la maggioranza), che se ne stanno da qualche parte in alto, comodi comodi.
Alla prossima e: non per la gloria, ma per il pane!
Ho letto alcuni suoi racconti: “Il viaggiatore” e “I giochi della notte”. Mi ha colpito la sua radicalità e la sua innocenza nel descrivere senza filtri la realtà di un modo spietato, senza speranza e privo di senso. È ossessionato dalla verità in ogni suo dettaglio. È
più che un semplice narratore.
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Ed è sottovalutato, almeno in Italia. Meriterebbe molta più attenzione.
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Interessante, lo dovrei leggere. Un grande scrittore del secolo scorso che era ossessionato dalla verità, definito più volte la coscienza critica della Germania, è stato Heinrich Böll, Anche lui vedeva le cose per quelle che erano nella realtà, e poi le riportava nei suoi libri senza omissioni o edulcorazioni di sorta, attirandosi parecchie critiche. Solo che Böll l’ha fatto in un’epoca dove bisognava avere coraggio (e grande rigore morale) per scriverle, certe cose. Hai letto L’angelo tacque? Una drammatica fotografia del dopoguerra tedesco che testimonia la sofferenza di un popolo annientato nel corpo e nell’animo, senza tuttavia fare sconti a nessuno.
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No, quel romanzo non l’ho letto. Ma conosci Böll. “E non disse nemmeno una parola”; “Opinioni di un clown”; “Il treno era in orario” e altri ancora 🙂
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Non mi ricordo chi mi disse che “l’unico modo per evitare una guerra, è portare un po’ di benessere a chi soffre”. Perché chi muove dall’alto una guerra lo fa per soldi e potere, ma chi dal basso decide di combatterla quella guerra è davvero convinto di non avere altra scelta per migliorare le proprie condizioni di vita, anche a discapito di altri.
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Il punto è che chi soffre poi desidera un risarcimento per le sofferenza. La vendetta, insomma.
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