Leggendo racconti arrivano strane riflessioni. Come questa


 

 

di Marco Freccero. Pubblicato il 2 dicembre 2019.

 

 

 

 

Ha senso scrivere e poi pubblicare un racconto sul… whisky?

Leggendo la raccolta di racconti “A calendar of love” di George Mackay Brown (sì, ancora lui), mi sono imbattuto proprio in un raccontino che parla di whisky. Mi è parso così anomalo che ci ho pensato su parecchio. Mi dicevo anche: perché pensarci? Non merita tanto. 

E più cercavo di convincermi che non meritava tanto, più ci tornavo.

Prima ne ho accennato nella mia pagina su Facebook. Poi mi sono anche deciso a mettere in iscritto i miei pensieri e a pubblicarli sul mio blog.

Un omaggio

Piccola anticipazione. Il #progettoIOTA è anche un minuscolo omaggio a questo autore delle isole Orcadi, che in Italia non ha avuto molta fortuna, benché siano stati pubblicati ben quattro romanzi. Di più però non posso aggiungere, né dire. Toccherà attendere il dicembre 2020 per saperne di più. Per allora, se tutto va bene, arriverà il mio nuovo romanzo e allora saprete.

Ma torniamo all’argomento di questo articolo.

Le isole Orcadi e la modernità

La prima risposta alla mia domanda sul senso che può avere un racconto incentrato sul whisky è: No. Non ha alcun senso, quindi passiamo ad altro e non soffermiamoci oltre.

In fondo un autore affermato (lui lo era, anche se non ha mai venduto a carrettate), può anche infilare, in una raccolta di racconti, un po’ quello che vuole. È un suo diritto e l’editore, oppure l’editor, possono semplicemente fare spallucce. Nel mucchio (di racconti), uno che stona, o fuori posto, ci può stare. Anche Tolstoj o Dostoevskij ogni tanto scivolavano. Si sa: pure a Omero capitava di appisolarsi.

In una raccolta non è detto che tutti i racconti debbano per forza essere buoni. Quindi potrei procedere e liquidare la faccenda proprio come una storiella poco riuscita.

Sì. 

Quasi certamente è così. Non tutte le ciambelle riescono col buco. Non tutti i santi finiscono in gloria (dicevano una volta dalle mie parti). Chi non risica non rosica (non c’entra nulla col discorso, ma mi piaceva mettercelo).

Però.

Conoscendo un po’ Mackay Brown (ho letto una sua biografia), il suo “culto” per la tradizione, il passato; il suo rifiuto per la modernità: direi che anche questo racconto ci sta.

Il vino è tradizione, legame con la terra, col passato. 

Nelle Orcadi ovviamente (per chi non lo sapesse: si trovano a nord della Scozia), non esiste la vite, ma birra e soprattutto whisky. Ecco che allora in questo “panorama” un raccontino che parla appunto di questa bevanda, ha un suo senso. Forse è assolutamente “dimenticabile” dal punto di vista letterario (anche se a me è piaciuto abbastanza).

Prima di procedere: non credo che il suo rifiuto per la modernità significasse tornare ai bei tempi andati, quando nelle Orcadi non c’era la radio né la televisione, i bar erano banditi (sì, torneranno solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, se ricordo bene. Le donne non amavano vedere i loro uomini sbronzi, il sabato sera), e girava il tipo che accendeva (di sera) i lampioni a gas e li spegneva (al mattino).

Qui parlerei semmai di nostalgia. 

Il rifiuto della modernità per lui si incarnava nel respingere quel “movimento” (oppure ideologia?) che aveva un culto assoluto per il progresso, e che un giorno persino nelle isole Orcadi si presentò. 

Lì furono scoperti dei giacimenti di uranio. Erano i tempi della signora Margaret Thatcher, e il progetto prevedeva la creazione di una miniera (a cielo aperto, credo), per estrarlo.

La popolazione non la prese benissimo, e quel progetto, che prevedeva di inondare le isole di denaro per indorare l’amaro calice, venne abbandonato. Le Orcadi adesso paiono essere un bel posto dove vivere, e dove molti scozzesi amano trasferirsi; e non solo scozzesi.

Ma sto pericolosamente divagando.

Parlavo di questo racconto sul whisky. Un passo indietro, prima di due passi in avanti (almeno spero!).

Quando uscì il suo primo libro, una raccolta di racconti mi pare, sua madre commentò l’evento dicendo: “Ma parla solo di gente ubriaca”. Spesso infatti Mackay Brown rientrava assai alticcio a casa, accompagnato da compagni di bevute leggermente più sobri. Se ci fermassimo a questo primo “strato”, potrebbe apparire quindi un omaggio un po’ balordo di un uomo che smise di bere solo verso la fine della sua vita, quando un tumore lo aggredì. (Non che fosse un alcolizzato, sia chiaro).

A volte credo che il talento di uno scrittore sia capace di miracoli. Come prendere un vizio, e farne qualcosa di differente. 

C’è un valore in quelle poche pagine, mi pare, ed è la difesa della propria terra, la celebrazione del lavoro degli uomini e delle donne di quelle isole di cui il whisky (così come da noi il vino) è stato sempre il mezzo per stabilire relazioni e legami.

Ma anche per generare drammi.

Il suo è quindi un omaggio, e una celebrazione. Non è un giudizio, mi pare, su quello che la bevanda può produrre di negativo. Benché lui ne fosse perfettamente cosciente. 

È come produrre formaggio o vino: ogni luogo, ogni fattoria, ci aggiunge qualcosa di “suo”, di unico e particolare. A volte con risultati eccellenti, altre mediocri. Ma in questo abbraccio fatto di parole, George Mackay Brown ancora una volta ha ribadito il suo credo genuino per la sua piccola terra, spazzata dal vento e ignorata da tanti.

Elaborazione in corso…
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8 commenti

  1. Un racconto sul whisky ci sta eccome, ma anche due, chissà che non ne scriva io uno, prima o poi! 😉
    Sarebbe stato devastante l’uranio in quelle terre. Il progresso ha senso solo quando rispetta la Natura…

    "Mi piace"

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