Lev Tolstoj e la ricerca della verità


 

come piazzo l'arte?

 

 

Di Marco Freccero. Pubblicato il 3 febbraio 2020.

 

 

 

Il conte Lev Tolstoj nel 1854 chiede e ottiene di essere trasferito in Crimea, per combattere a Sebastopoli. Da quell’esperienza nasceranno i tre racconti che troviamo nel libro intitolato: “Racconti di Sebastopoli”.

Perché, a mio parere, sono dannatamente importanti (e non solo interessanti)? Per scoprirlo devi solo continuare a leggere.

La ricerca di Tolstoj

A quella guerra partecipò l’Italia, allora però ancora Regno di Sardegna, che con Cavour decise di inviare oltre 15.000 uomini al comando di Alfonso La Marmora, per combattere a fianco degli inglesi proprio contro i russi. Una mossa indispensabile per riuscire a ottenere “collaborazione” in vista dell’Unità. Infatti nel 1859 scoppierà la Seconda Guerra d’Indipendenza (le battaglie sono quelle di Magenta, Solferino e San Martino).

Ma a noi quest’oggi interessa Tolstoj, e questo libro (I racconti di Sebastopoli) ci è di aiuto per comprendere lui, la sua visione delle cose, della vita. 

Anche la sua scrittura.

Perché ci mostra che quest’uomo è già alla ricerca della verità; ha già fatto la sua scelta, insomma. 

Lui va al fronte, ma non ci va per celebrare la bella guerra, l’eroismo dei soldati, il coraggio degli ufficiali, il loro genio tattico, la loro capacità di guidare e motivare le truppe sino alla vittoria.

Niente del genere. 

Siccome lui bada alla verità, parla dei fatti, di quello che vede. E sino a quel momento nessuno in Russia aveva mai osato così tanto. 

Amputazioni, corpi sventrati, morti, tanti morti. Ufficiali pieni di superbia, di boria, che considerano i soldati solo carne da macello da amministrare con la giusta perizia (perché la guerra si deve vincere, e se si resta senza soldati la si perde).

Qui è già ben presente un elemento che ritroveremo in tutto il resto dell’opera di Tolstoj: il suo sincero affetto per il popolo russo. Lui detesta gli ufficiali, ma resta colpito dal coraggio del soldato russo. Che fa il suo dovere senza pretendere in cambio nulla, perché così si fa, e che sfugge anche agli encomi, alle celebrazioni.

Rimane come folgorato dall’animo grande del semplice russo, dell’uomo che gli stati maggiori dell’esercito nemmeno considerano persona, ma roba. Tolstoj crede che la Russia viva solo grazie a queste figure di nessuna importanza, senza nome, che ogni giorno fanno il loro dovere nel silenzio e senza gloria. 

Questa idea del popolo russo come elemento unico, prezioso ed enorme, capace di imprese memorabili, di sacrifici supremi, la ritroveremo intatta nelle pagine di Guerra e Pace, anni dopo.

Il successo di questi 3 racconti fu enorme perché nessuno aveva mai nemmeno immaginato di raccontare come stanno le cose. E cioè che la guerra è un macello continuo dove volano via gambe, mani, braccia, quando va bene. Dove non si sa mai chi vince e chi perde, e il caos impera. 

E gli ufficiali non sono uomini illuminati, geniali condottieri, ma ometti che si credono superiori quando in realtà non sanno niente e spesso sono privi di umanità. Di competenza. Che chiacchierano, giocano, alzano il gomito. Ma sono degli incapaci.

Bizzarro che un libro così… vero abbia avuto successo, che sia piaciuto così tanto (il primo libro fu letto anche dallo Zar in persona) e che la sua forza “eversiva” sia stata ben accetta. 

Ma questo lo si può spiegare facilmente; almeno credo. Tolstoj era un nobile, ed era figlio di una principessa e di un conte che aveva ottenuto il titolo da Pietro il Grande. Era di quel mondo, e poteva parlare in quella maniera senza correre rischi.

Difficilmente un contadino avrebbe potuto fare altrettanto e sperare di cavarsela. Innanzitutto, non aveva la possibilità di farlo perché nell’Ottocento in Russia l’analfabetismo era una piaga che riguardava praticamente tutti, tranne i nobili. Ma se anche fosse riuscito a scrivere cose del genere, la polizia zarista lo avrebbe preso in consegna, e dopo un processo lo avrebbe scortato ai lavori forzati in Siberia.

Desidero solo che il panorama in cui Tolstoj e la sua opera si muovono sia chiaro. Lo scrittore russo quando scrive questi 3 racconti ha già deciso come scrivere (o meglio: a come NON scrivere). Lui guarda i fatti, e li riporta. 

Non gli interessa altro che la verità, e della retorica non sa proprio che farsene. Disprezza quelli che non amano il popolo russo, ma che lo usano per combattere guerre per prendersi tutti i meriti quando poi, spesso, questi nobili ufficiali si limitano a osservare col cannocchiale la battaglia che avviene a qualche centinaio di metri al di sotto della loro comoda postazione.

Qualcuno potrebbe dire: Ma chi diavolo ha voglia di scrivere in modo retorico? 

Innanzitutto: la guerra a quei tempi era infarcita di retorica. Buona parte dei nobili (Tolstoj in testa), vivevano in un ambiente dove la guerra era accarezzata, amata, evocata. Era il solo “luogo” capace di rendere la vita di un essere umano degna di essere vissuta. La tensione, il coraggio, l’odore della polvere da sparo, lo scontro con la baionetta: erano elementi che affascinavano le persone (non i soldati semplici).

Tolstoj sembra già immune da questo fascino. Osserva e in quello che vede, che infine riporta nel suo libro, non vede alcuna retorica ma solo dolore. Fango, lamenti, amputazioni, sangue. Gli scontri sono così duri che alla fine i soldati non sanno più dove si trovano, e se effettivamente stanno sparando al nemico oppure… ai loro commilitoni. Il fumo delle esplosioni avvolge ogni cosa, non si vede più nulla, non si sa che cosa succede e per capire chi ha vinto e chi ha perso occorre attendere la fine della battaglia.

La verità per lui è un’urgenza quasi “fisica”. I fatti sono il mezzo che essa predilige per manifestarsi, ma certi uomini (gli ufficiali, la propaganda in questo caso; più avanti la Chiesa ortodossa), sostituiscono i semplici fatti con la retorica, cioè con la menzogna. Buona parte della sua opera letteraria sarà una battaglia per cercare di smascherare la menzogna per lui più grande: la vita.

In una specie di furore che alla fine lo condurrà a fronteggiare anche la morte, per indagare questo mistero con la parola (per i critici Tolstoj si spinge là dove nessuno aveva mai osato andare). E così riaffermare ancora una volta, forse quella definitiva (almeno per lui), che la vita è appunto menzogna, e che la morte è l’unico elemento che ci libera da questa schiavitù che ci tiene assoggettati ad appetiti, convenzioni, usi e costumi, apparenze…

Questo modo di affrontare i fatti, la realtà, sarà il sistema che Tolstoj applicherà anche nel resto della sua produzione letteraria. Forse leggere “I racconti di Sebastopoli” è importante proprio perché permette di avvicinarsi a lui, al suo stile di scrittura, senza però passare attraverso i grandi (e sublimi) romanzi. Almeno agli inizi, perché poi sarà inevitabile avvicinarsi (almeno) ad “Anna Karenina”.

Elaborazione in corso…
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11 commenti

  1. Perché gli Ufficiali e, in genere, coloro che ricoprono posizioni di comando sono sempre dei perfetti incompetenti? Me lo domando spesso, perché sembra che questa sia la regola anche adesso. Io penso che per arrivare ai posti di comando sia necessario fare prima la cosiddetta “gavetta”, chi lo fa è quasi sempre un buon capo, perchè riesce a mettersi nei panni degli altri. Ok sto divagando, però bravo Tolstoj a scrivere questo racconti su una scomoda verità e, visto che era nobile, poteva farlo solo lui…

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