Selma Lagerlöf: come una semplice frase fa da architrave a un romanzo


 

 

di Marco Freccero. Pubblicato il 2 marzo 2020.

 

 

La scrittrice statunitense Flannery O’Connor affermava che esiste un gesto, oppure un’azione, in un racconto (anche in un romanzo? Probabilmente sì, ma adesso non ricordo) che lo fa funzionare e lo tiene assieme. Potrei quindi affermare che questo gesto, o azione che sia, rappresenta un poco la “prima pietra” (oppure la pietra angolare?) della storia, corta o lunga che sia. Forse chi scrive è partito da essa, oppure ha dovuto scrivere tutto un romanzo di 400 pagine per arrivare infine a essa. Darle insomma senso, significato.

Credo proprio che lei avesse ragione.

La lezione dell’imperatore di Portugallia

Qualche tempo fa ho letto un romanzo della scrittrice svedese Selma Lagerlof, Nobel della letteratura nel 1909. Avevo già letto di lei i racconti di Natale, ma non mi avevano per niente entusiasmato. Eppure ho deciso di darle un’altra possibilità e la scelta è caduta sul romanzo “L’imperatore di Portugallia”. 

Mai scelta fu più felice.

 

copertina libro l'imperatore di portugallia

 

Quindi, se desiderate avvicinarvi a questa scrittrice, meglio che lo facciate proprio con questo romanzo, e lasciando perdere invece i racconti di Natale. È qui che si vede all’opera il suo talento.

Non è mia intenzione adesso scrivere e descrivere la bellezza di questo romanzo. Dirò solo che Jan di Skrolycka, il protagonista, questo umile contadino senza ambizioni, che a un certo punto “impazzisce”, in realtà giganteggia. E giganteggia proprio perché è piccolo e insignificante e lo resterà sempre; non si corrompe. Non diventa “migliore” perché in realtà è già il migliore di tutti. Né diventa ambizioso come magari potrebbe e dovrebbe fare perché anche nella piccola campagna svedese ci sono uomini e donne che sono a caccia del benessere. E lo ottengono, naturalmente; impegnandosi, dandosi da fare. Lavorando duro. 

Non lui, però. Che lavora duro, ma non sa che cosa sia l’ambizione. Perché vi sono cose più importanti di questa “qualità”.

Alla fine, solo alla fine tutto sarà chiaro, e ci si renderà conto di chi era per davvero questo Jan. 

Ecco secondo me la frase (no, non è un gesto e nemmeno un’azione) che racchiude il senso della storia.

Forse era questo: non si poteva conservare un dono così straordinario come la bimbetta, se non si era pronti a sacrificarle ciò che si aveva di meglio”.

La “bimbetta” ha la scarlattina, e si gira e rigira sul letto duro di casa. C’è una camicia, una sola, di lino: appartiene al padre. Con quella, riuscirebbe ad avere sollievo e la guarigione sarebbe più rapida. Ma: come convincere la moglie a quel sacrificio? 

Come si sa (be’, non so se “si sa”. Mi pare però che in giro: “si sa”), sono in tanti a sgolarsi per “consigliare” come si deve scrivere una storia; e una storia che si vende come il pane (perché se non si raggiungono determinate vendite, quella storia sarebbe inutile). Appare quindi abbastanza naturale che un certo tipo di discorsi sia beatamente ignorato. Se avessi qui sottomano un webinar su come scrivere un romanzo di successo e lo mettessi in vendita a 99 euro, un sacco di gente sborserebbe i soldi per scaricarlo e dargli un’occhiata.

Se invece scrivo quello che affermava Flannery O’Connor:

Mi sono spesso chiesta cosa faccia funzionare e tenga insieme un racconto, e sono giunta alla conclusione che probabilmente si tratta di qualche azione, di qualche gesto particolare, dissimile da tutti gli altri, che segnala dove pulsa il cuore del racconto.

chi passa da queste parti legge e poi procede altrove, dove probabilmente troverà quello che cerca: la pappa pronta. 

L’epoca della pappa pronta

In fondo questa è davvero l’epoca della pappa pronta. Dove desideriamo delle soluzioni (impostate da altri), per ottenere i nostri obiettivi. Salvo poi accorgerci, magari tardi, che non sono proprio “nostri”, ma fanno parte di una selva, un mare, un bosco di altre soluzioni e obiettivi identici. 

Si chiama omologazione, quella che crediamo essere libertà.

Tornando alla frase della O’Connor, si potrebbe far notare che lei parlava di gesto, oppure azione; mentre nel frammento che ho riportato tratto da “L’imperatore di Portugallia” non c’è nulla del genere. Ma un’intuizione è l’azione più grande che un essere umano può realizzare, soprattutto se dopo egli conformerà a essa la sua intera vita. 

Tranquilli: non desidero assolutamente spiegare quale azione, o frase, presente ne “L’ultimo dei Bezuchov”, fa da architrave all’intera storia. Anche se probabilmente è:

Essere malato è il mio talento.

 

 

Quello che mi preme ricordare è che raccontare storie non è mai assemblare frasi o dialoghi. Al contrario, è eliminare frasi e dialoghi per fare in modo che alla fine tutta la forza che l’azione, o la frase cardine, racchiude, possa scatenare tutta la sua energia: tranquilla.

Perché in fondo non stiamo parlando di qualcosa in grado di capovolgere il mondo. Ma “solo” di qualcosa che il protagonista della storia scopre, e che lo abbaglia. Da lì in avanti forse la sua giornata non sarà più come prima. Di sicuro il mondo continuerà a girare esattamente come ha fatto sempre, e non ci sarà nulla di nuovo. Nessuna rivoluzione si sarà scatenata. Tutto procederà alla solita maniera.

In un mondo alla disperata ricerca di azioni eclatanti, drogato di “urgenze” planetarie (almeno una volta al mese ce ne deve essere una; altrimenti la “tensione” scema), arrivano storie come quella racchiusa in questo libro: “L’imperatore di Portugallia”. 

Un contadino “matto”, che infine muore.E che tutti, con convinzione, considerano pazzo, accecato dalla follia che Dio gli ha mandato perché non vedesse la verità.
Ma proprio lui conosceva la sola verità che conta.

C’è una figlia che torna dopo anni e anni alla casa paterna; ma non comprende che cos’è l’amore. Ha orrore del padre “pazzo”. Desidera scappare da lui con la madre, e affidarlo a un vicino compassionevole.
Solo all’ultimo (ma tutto si è già consumato), la figlia ha la rivelazione e questa, in un certo senso, la trasforma. E non è la sola a comprendere.

E tutto sgorga (io credo) da quella “semplice” frase:

Forse era questo: non si poteva conservare un dono così straordinario come la bimbetta, se non si era pronti a sacrificarle ciò che si aveva di meglio”.

Un Nobel meritato, quello a Selma Lagerlöf.

Elaborazione in corso…
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8 commenti

  1. Una frase molto bella, anche quella del tuo romanzo “essere malato è il mio talento” è molto particolare, racchiude tutto un mondo che il lettore scoprirà leggendo la storia.

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  2. Probabilmente dovrei leggere il suo libro, per capire bene il senso di quella frase. Il sacrificio non può essere la camicia, c’è sicuramente dell’altro. Mentre posso dire che sì, la tua frase “Essere malato è il mio talento.” ha una potenza straordinaria. Mi pare che tu l’avessi messa in un estratto prima dell’uscita, ed è fondamentalmente quella che mi ha incuriosito subito. 😉

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