Le letture dell’autore indipendente per diventare autore indipendente


 

 

di Marco Freccero. Pubblicato il 25 maggio 2020.

 

 

Che cosa legge un autore indipendente per diventare autore indipendente? Vale a dire: prima di diventarlo per davvero? Già, perché va bene deciderlo; dirselo sotto voce negli angoli, oppure mentre passeggi per strada (magari mentre percorri l’ombroso vico Spinola o vico Crema, per vedere l’effetto che fa). 

Anzi: a quei tempi (i tempi lontani in cui mi decisi a raccontare storie), non avevo affatto idea che sarei diventato un autore indipendente. Erano gli anni Ottanta e nessuno poteva immaginare che un giorno sarebbe comparso all’orizzonte questa figura: l’autore indipendente che fa tutto da sé. 

Quindi: che cosa leggevo per diventare un autore pubblicato da una stimata casa editrice? (Perché se non è stimata, chi la vuole?).

L’idea non basta. Chiedi pure all’orango

Su questo Pianeta esistono strane creature che ritengono la lettura di libri un elemento del tutto secondario per scrivere. 

Ma io c’ho l’idea.

Afferma con un certo orgoglio nella voce uno di questi rappresentanti umani. Probabilmente anche l’orango ha delle idee (per questa ragione passa da un albero all’altro. Ha “idea” che starà meglio se cambia posizione. Ma rimane orango e non diventa scrittore).

Liquidata la faccenda delle idee, veniamo alle letture; alle mie almeno.

Siamo tra gli anni Ottanta e Novanta. Leggevo essenzialmente classici: Tolstoj, Dostoevskij, e in genere tutti gli autori del Novecento, come Remarque, Böll, Silone, Sciascia e tanti altri di cui non faccio il nome per ovvie ragioni. Buona parte delle mie letture a quei tempi erano fondate sul desiderio di capire perché accadevano determinate cose. Leggere quindi Remarque oppure Böll era per me essenziale perché mi permetteva di avvicinarmi a quella Storia macchiata di orrore e sangue. La Storia del Novecento con le sue guerre.

Benché accumulassi vocaboli, e questo naturalmente influisse anche sull’uso della lingua che facevo, non avevo ancora iniziato a leggere per davvero. Che cosa vuol dire?

Ingurgitavo parole perché ero certo che così facendo sarei riuscito a dare alla mia prosa un livello superiore. Ma se vuoi essere un autore, devi anche fare un passo ulteriore. Vale a dire: leggere in un certo modo.

La patente non basta

Proprio così. Leggere è dannatamente importante, ma se desideri per davvero raccontare storie, allora devi anche compiere un ulteriore passo. 

Puoi prendere la patente. Puoi prendere la patente e fare un corso di guida per tirarti fuori dalle situazioni più complicate (sai cosa fare se guidando finisci su una lastra di ghiaccio? Secondo me, no).

O ancora: alzi il cofano e inizi a mettere le mani nel motore (stacca la batteria però, se inizi ad allungare le mani). 

Meglio ancora: cerchi di saperne di più e vai da un meccanico affinché sveli i segreti della meccanica. Ecco, siamo arrivati al punto: chi racconta le storie alza il cofano di quella macchina narrativa che sforna libri. Ma in quale maniera?

Robert Louis Stevenson, lo scrittore del “L’isola del tesoro” ma anche de “Lo strano caso del dottor Jekyll e del Signor Hyde”, all’invio ricopiava integralmente a mano i romanzi che leggeva. Comprese le virgole, i punti e virgola: tutto insomma. Questo per imporsi una lettura davvero attenta del testo, in modo da capire come l’autore fosse riuscito a scrivere quella scena, oppure quel dialogo.

Mi piacerebbe affermare che io facevo così; niente del genere.

Altri affermano che bisogna leggere e rileggere; pure in questo caso mi tocca affermare, cospargendomi il capo di cenere, che non agivo in questa maniera. Leggevo un romanzo e passavo a quello successivo.

Ah, sì: scrivevo. Quello sì. Siccome mi rimpinzavo di storie altrui, alla lunga mi mettevo pure a scrivere. Dovevo pur diventare un autore, giusto? Non bastava girare per Savona e dirselo sottovoce, magari ripetendoselo (sempre sottovoce), in via Verdi, in via Torino oppure in corso Tardy e Benech.

Già scorgo il terrore nei vostri occhi.

Adesso ci ammorba con i suoi scritti degli anni Ottanta e Novanta”.

Niente del genere, sul serio. Non ci penso nemmeno. Sono lì, da qualche parte, e riposano serenamente all’interno di un disco rigido. Si trattava di storie ambientate tanto per cambiare nella città di Savona (lo ammetto: non ho mai avutocolta fantasia nell’ambientazione). E un po’ mi seccava, a quei tempi. Mi dicevo che ero troppo provinciale, che per trattare di quei temi (alti e nobili), avrei dovuto spostare lo scenario in qualche altro posto più importante di una periferica città italiana che si apprestava a congedarsi dall’industria pesante (vale a dire: dall’Italsider), per abbracciare il turismo, ma con un entusiasmo che avrebbe faticato assai a decollare. E a ragione.

A proposito di Savona

Savona (piccola digressione che vi farà un sacco di bene. Di Savona non sapete nulla, giusto?) era stata una città con radici anche anarchiche (ne ho accennato nel mio romanzo “L’ultimo dei Bezuchov”). Il più grande poeta dialettale di Savona, Giuseppe Cava (o Beppin da Ca’) era anarchico. L’altra anima di Savona, quella preponderante, era socialista. Il futuro era della classe lavoratrice, degli operai, non era immaginabile che il turismo potesse diventare qualcosa di più serio. Un’industria che crea lavoro e ricchezza. E credo che questa “difficoltà” a capire come il mondo cambiasse abbia inciso parecchio sull’evoluzione di Savona. Che negli anni seguenti ha guardato con diffidenza e scetticismo all’arrivo di Costa Crociere, mentre l’Italsider (divenuta Omsav, cioè Officine Meccaniche Savonesi), fu rasa al suolo per costruirvi l’immancabile complesso residenziale.

copertina ebook l'ultimo dei bezuchov

 

Tornando all’argomento di questo articolo. A me Savona stava stretta, e ci ambientavo le storie senza molta convinzione. Vedevo la Londra di Dickens, la Parigi di Zola o la Mosca di Tolstoj e poi guardavo Savona: be’, non è che fosse esattamente qualcosa che mi piacesse. Ma a quei tempi credevo ancora che per salvare il mondo con le mie storie occorresse un palco adeguato. E Savona ai miei occhi non lo era per nulla.

Conosci Flannery O’Connor?

Ma erano soprattutto i classici le mie letture. Anni dopo mi resi conto che avrei dovuto leggere di più anche autori più “vicini”. Come per esempio Flannery O’Connor.

Forse fu in parte lei che mi spinse a “rassegnarmi”. Lei viveva nel sud degli Stati Uniti, un mondo che chi abita nelle grandi città come New York (dove se scoppia una pandemia seppelliscono i morti in fosse comuni. Come si faceva in Europa al tempo della peste) considera arretrato, incivile, e malato di stupidità al massimo grado. Però lei ci ambientava i suoi racconti, i suoi romanzi.

Imparai ad apprezzarla, ma capii la sua grandezza solo anni dopo (ormai chi legge ha capito che sono un motore diesel: se capisco, capisco anni dopo). Lei giustamente affermava che non è importante dove si vive, perché dappertutto c’è l’essere umano (d’accordo, non scriveva proprio così; ma ci siamo capiti). Quindi puoi anche ambientare le tue storie sul pianerottolo di casa. In un condominio a Sassello, o Urbe o Cartosio (tutti luoghi che esistono, sia chiaro).

Ma fino a quando non prendi atto che non sono le idee a fare una storia, ma ciccia e colesterolo, non andrai molto distante.

Elaborazione in corso…
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14 commenti

  1. Le idee che si fanno carne. Già già. Io ho un percorso di letture tutto diverso, ma leggere con l’attenzione dell’autore che vuole imparare non mi riesce per niente facile. Per me la lettura resta un piacere incondizionato, ti tuffi e via. Per fortuna si impara anche così. 😉

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    • Non è facile in effetti, anche perché il rischio di perdere il piacere della lettura è molto elevato. Ma se sei incline all’ascolto, forse la strada è in discesa. Forse. Perché l’ascolto ti mette nella giusta prospettiva, ti rende più ricettivo. Una parte del… Cervello(?) si incarica di assorbire quello che serve, mentre il resto si diverte a leggere.

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  2. Leggendo il tuo post mi è venuto in mente Gavino Ledda, un autore sardo sconosciuto ai più, lui leggeva il vocabolario. Nato in una famiglia di pastori, il padre lo ritirò da scuola a sei anni, in età adulta riprese a studiare, riuscì ad arrivare alla laurea in lettere e la lettura del vocabolario della lingua italiana fu parte della sua formazione.
    Tornando alle letture credo che quelle giovanili e formative siano spesso fatte per capire il mondo, ognuno trova le sue, tu hai fatto delle letture importanti (a me mancano quasi tutti gli autori russi) e sono quelle letture che restano scolpite nel bagaglio della propria formazione, un po’ come l’infanzia lasci una traccia indelebile nell’anima dell’adulto. Io mi sono concentrata su Cesare Pavese e Grazia Deledda, per poi passare a Cassola fino a quelli più recenti, mi sono resa conto che ognuno raccontava dei propri luoghi e delle proprie esperienze (sia pur romanzate) la provincia Toscana di Carlo Cassola, la Sardegna della Deledda e gli esempi potrebbero continuare.

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  3. Le letture valgono per qualsiasi autore.
    Riguardo all’ambientazione, dico che dipende dal tipo di storia. Se ambienti una serie di thriller in un paesino di 500 abitanti, è altamente improbabile che accada tutto lì.
    Se scrivi per sondare l’animo umano, allora va bene anche il pianerottolo di casa.

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