di Marco Freccero. Pubblicato il 20 luglio 2020.
Per me il foglio di carta (virtuale, perché io scrivo al computer e credo che non potrei più battere a macchina come facevo una volta), non è mai stato bianco. È sempre stato pieno di storie, forse persino troppe. E viene il momento di scegliere che cosa raccontare, e che cosa invece lasciar perdere.
Non solo perché sono appunto troppe e quindi per forza di cose non esiste il tempo per scriverle tutte; nemmeno se uno si mettesse a scrivere sempre, dal mattino a sera.
A un certo punto diventa quasi naturale congedarsi da certe storie. Occorre farlo perché esse stesse hanno bisogno di qualcosa di più che non sia solo diventare di dominio pubblico.
Andare oltre
Che cosa intendo dire? Nulla di nuovo, né di rivoluzionario. Ho già indicato in precedenza in qualche altro articolo che il romanzo “L’ultimo dei Bezuchov” è stato per me, lo spartiacque; e che i racconti della Trilogia delle Erbacce rappresentano un capitolo fondamentale, ma chiuso.
Immagino che un autore a un certo punto possa comprendere che deve andare oltre; oppure rassegnarsi a raccontare sempre le medesime storie. Non è che non io abbia più spunti per storie come quelle che sono presenti in “Cardiologia” o ne “La Follia del Mondo”. Potrei tranquillamente aver prodotto altri racconti come quelli e un sacco di persone le avrebbe apprezzate (be’, non so se sarebbero state “un sacco”).
Non le avrei apprezzate io, però.
Un po’ di settimane fa ho letto il romanzo dello scrittore islandese Jón Kalman Stefánsson dal titolo: “Storia di Ásta”. Non mi è piaciuto granché, e me ne dispiace. Eppure se fosse stato il mio primo contatto con lui, lo avrei apprezzato tantissimo. Ma io, purtroppo, di lui ho letto (credo), tutto quello che ha pubblicato in Italia.
Non l’ho apprezzato perché mi è parso di leggere ancora una volta una storia già sentita; o meglio già letta. Sempre la stessa storia, ecco il punto.
Naturalmente un sacco di persone potrebbe obiettare che uno scrittore in fondo scrive sempre delle medesime cose. Tolstoj da “I racconti di Sebastopoli” in poi indaga sulla morte.
Dostoevskij sul male che colpisce gli innocenti, e sulla bellezza di Cristo (solo dopo essere finito di fronte al plotone di esecuzione).
Balzac scriveva come erano belli i tempi andati. Lui, che voleva essere accolto tra i nobili, che girava con la carrozza con il suo stemma sulle porte e con i paggi, e che si è rovinato finanziariamente per inseguire i suoi sogni, sognava la Francia precedente alla sua epoca. Quando i nobili erano davvero tali, invece di scodinzolare davanti al denaro.
Tuttavia, possiamo vedere che le opere di questi autori riescono a sorprendere perché, nonostante la fedeltà a certi temi, riescono a produrre storie capaci di interessare. Sempre “nuove”, eppure sempre fedeli a uno sguardo, a una visione. A un’idea.
A me pare invece che “Storia di Ásta” (quindi torniamo a parlare di Stefánsson), non aggiunga nulla di nuovo, ma si limiti a ribadire concetti e idee che già si trovano in altri libri di questo scrittore islandese. Posso consigliarlo a chi non lo ha mai letto. Ma temo che chi già lo conosce troverà concetti ormai detti e ridetti.
Per questa ragione mi sono imbarcato nel #progettoIOTA; no, non l’ho iniziato dopo la lettura del libro di quello scrittore islandese, naturalmente. Però mi ha convinto ancor di più della necessità di osare. Di provare a muoversi in territori un po’ differenti.
Un progetto, il #progettoIOTA, che procede a tamburo battente e a dicembre, salvo clamorosi colpi di scena a questo punto dietro l’angolo (Covid-19 dice qualcosa?), uscirà in digitale e cartaceo. Desideravo, e desidero, produrre qualcosa di differente e anche complesso. Che non abbia molto a che spartire con la Trilogia delle Erbacce; ma forse sì. Perché in realtà a quelle storie dovevo una spiegazione più “articolata”. Pubblicarle non poteva essere sufficiente.
Oppure un approfondimento
Mi sono trovato a dover scegliere. Continuare a raccontare le solite storie di gente che perde il lavoro; oppure fare un passo in avanti e capire (o almeno provarci) perché accadono certe cose. E credo che certe decisioni sia più semplice prenderle se, come il sottoscritto, NON hai alcun successo. Intendendo il successo quella faccenda che finisce col ficcarti in una posizione e in un punto ben preciso del panorama letterario. Finendo però con l’imprigionarti.
Io non ho alcun successo. Quindi non mi preoccupo affatto di cosa possano pensare i miei lettori delle mie opere. Ho già spiegato come scrivo le mie storie. In base alla regola:
Prima la storia, poi il lettore.
Questo è altamente sconsigliato da tutti i guru. Ovunque, sulla Rete, si ripete che occorre studiare con cura che cosa vuole il lettore e quindi proporgli quello che desidera.
Non ho mai fatto nulla del genere. Per me “autopubblicazione” vuol dire libertà, e libertà, tradotto in italiano, significa:
Prima la storia, poi il lettore.
Ho già indicato in passato il difetto di questo modo di affrontare la scrittura: pochissimi lettori. Pazienza.
A me in questo momento interessa andare oltre nella mia narrazione, con tutti i rischi che ne derivano. Perché non è affatto detto che riuscirò nell’intento.
Ma che significa andare oltre?
Anche uno scalcagnato autore indipendente come il sottoscritto pensa. Riflette. Medita. Incredibile, vero? Le storie della Trilogia delle Erbacce avevano, ai miei occhi, un difetto: si limitavano alla realtà. Sì, certo: ho sempre scritto che la realtà conta, che raccontare storie non è mai una fuga dalla realtà, bensì un calarsi nel pozzo della realtà. E che spesso le persone desiderassero l’evasione proprio per non fare i conti con la realtà. Si cerca, credo con successo, di rimuovere la realtà e di sostituirla con una sua parodia, e l’epidemia non farà che accelerare e rendere necessaria questa rimozione.
Ma la realtà benché complessa, intricata e difficile, non è sufficiente. Esporre i fatti non basta. Andare oltre vuol dire raccontare storie dove oltre i fatti è necessario raccontare che cosa c’è in azione. Se c’è in azione qualcosa, certo.
Desideravo, e desidero, approfondire. Quelle storie, per capirci quelle che trovi dentro la Trilogia delle Erbacce, non credo che siano molto soddisfatte. Sì, le ho pubblicate e a molte persone sono piaciute. Ma “esse” non sono affatto convinte di aver avuto quello che volevano. Che non è un posto, o un po’ di visibilità.
Se sono uscite allo scoperto è perché pretendevano delle spiegazioni. Perché è “così”? Chi lo dice? Chi lo impone? Come nasce “tutto questo”?
Anche se non sembra, si tratta di argomenti tutt’altro che facili; e per me poi difficilissimi. Il pericolo di un fiasco colossale è reale. Ma preferisco il fiasco colossale che continuare a scrivere sempre le stesse storie.
Diciamo che un autore deve fare quel che sente giusto, dentro di sé. Altrimenti la scrittura più che un piacere, diventa un obbligo (e poi l’effetto lo si sentirebbe anche tra le pagine). Molto dipende anche dal genere che si sceglie di scrivere, per i quali si sente maggior affinità. Chi scrive gialli/thriller rischia di cadere nella stessa storia (del resto, lo schema è sempre quello: omicidio – assassino), come pure chi scrive romanzi rosa (lei e lui, al massimo c’è l’altro o l’altra, e vissero felici e contenti). E pure i lettori sono poi diversissimi: c’è chi vuole spaziare, esplorare nuove storie, nuove modalità (così come tu le vuoi scrivere) e chi invece predilige la sicurezza di una trama che bene o male già conosce, variando solo l’ambientazione.
Direi piuttosto quindi: ad ogni storia, il suo lettore. E anche IOTA troverà i suoi, ne sono certa. 😉
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E saranno i soliti lettori! Lo sento! 🤪
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Ti stimo Marco, sono totalmente in sintonia con questa tua franca e mi auguro feconda ricerca.
Hai detto una cosa molto importante : andare oltre noi stessi. È il principio della creatività. Bravo
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Grazie! 🙂
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Sulla storia ti do ragione. I guru di sicuro intendono che bisogna capire cosa voglia il lettore quando scrivi per il web, ma questo non è generico, ma specifico a un blog che ti serve per lavoro.
In un certo senso anche scrivere narrativa e pubblicarla è lavoro, o vuole esserlo, ma uno scrittore scrive le storie che ha dentro, non certo quelle che hanno dentro i suoi potenziali lettori.
Ne parlerò a settembre, grazie dell’idea 🙂
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Di nulla. Grazie a te. 🙂
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Capisco molto bene cosa intendi, perché lo vivo anch’io. Secondo me continuando a scrivere si arriva al punto in cui le tematiche che si avevano in circolo – veri e propri tormentoni, a volte – si esauriscono da sole, perché sono state in qualche modo elaborate e l’autore cambia. Niente da dire sul fatto che prima viene la storia e poi i lettori; anzi, penso che la qualità di un autore si riconosca proprio nel riuscire a portare i lettori alle sue storie, e non viceversa.
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E non è per nulla facile, portare i lettori alle proprie storie. Ma lo avrai notato anche tu 😉
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[…] suo articolo “Perché un autore indipendente deve andare oltre nella sua narrazione” Marco Freccero ha parlato anche di questo, scrivendo una cosa su cui sono d’accordo in pieno: […]
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