Si scrive perché certe parole rimangano fra noi


 

 

di Marco Freccero. Pubblicato il 27 luglio 2020.

 

 

 

Perché si scrive? 

Per i motivi più diversi, e Flannery O’Connor ci viene in aiuto affermando che questi motivi tanto ricercati, con i quali ci si fa una divisa con tanto di medaglie, dovrebbero sempre essere una faccenda privata di… chi scrive, appunto.

In fondo questa attenzione per le motivazioni che spingono a scrivere è una moda piuttosto recente. Sino a qualche tempo fa (per esempio durante il Medioevo), si badava solo all’opera, anzi; nemmeno si metteva il nome dell’autore; o perlomeno non era poi così importante. 

Ma l’autore, il suo mondo, la sua visione, conquistano sempre più spazio e compaiono quando si gettano le basi della società che poi conosceremo come capitalista, e che ha bisogno di conoscere, identificare chi scrive cosa. E alla fine diventa quasi più importante dell’opera (ho scritto “quasi”?).

Ma c’è, io credo, una motivazione decisamente interessante che merita una riflessione.

A proposito del Signore degli Anelli

Qualche tempo fa mi sono inoltrato nella lettura del libro di Emilia Lodigiani (fondatrice della casa editrice Iperborea), dal titolo “Invito alla lettura di Tolkien”. Un libro che sta per diventare introvabile, temo: infatti è del 1982. 

Perché questo professore di Oxford, che non aveva la televisione, viaggiava molto poco, e non apprezzava il “culto” di cui era oggetto, a un certo punto si mise a scrivere “Il Signore degli Anelli”?

Per fare i soldi? No; anche se grazie a un’edizione pirata statunitense del suo libro, le vendite schizzarono alle stelle.

Per scrivere del bene e del male? No.

Allora forse per spiegare il pericolo del potere? Nemmeno; lui affermava semmai che il cuore del libro era la morte e l’immortalità.

E allora: perché Tolkien scrive un simile romanzo?

Lo scrive per dare un’ambientazione storica alle lingue elfiche che ha creato in precedenza. Come filologo, adorava il gallese e il finnico. A un certo punto costruisce una lingua, quella degli elfi appunto. Con una grammatica ben definita, che si può anche imparare e quindi parlare, se qualcuno lo desidera (e c’è chi lo fa). Ma giunto a questo punto: che cosa fare di questa lingua che non è possibile definire morta, poiché non è mai stata parlata da alcun popolo, ma è frutto di una smisurata passione?

La soluzione alla fine arriva, ed è “abbastanza” semplice. Tolkien deve “per forza” scrivere una storia che dia a quella lingua il “luogo” dove possano in qualche modo parlare. Quella lingua ha necessità di un’ambientazione storica, insomma. E nasce perciò la Terra di Mezzo.

E a proposito di Marco Freccero

A questo punto mi sono domandato: ma io che sono un povero e vecchio ligure, perché scrivo? Perché sto lavorando al #progettoIOTA che vedrà la luce (per adesso è tutto confermato) a dicembre 2020?

Potrei elegantemente rispondere: non importa. Sono affari miei e il lettore deve badare solo a quello che scrivo. Ma ormai sappiamo che non succede più così. Certo: l’interesse per quello che io dico, scrivo o affermo non va oltre le poche persone che mi leggono. Non si fa a pugni per sapere che cosa Marco Freccero pensa, ecco.

Inoltre, devo ammettere che la motivazione del professor Tolkien non è niente male. Perché se è vero che lui ha creato una lingua. 

Forse io, che una lingua ce l’ho già e mi basta e avanza, racconto storie perché da quella lingua non cadano, per disperdersi, certe parole.

Forse scrivo perché alcune parole abbiano un’ambientazione storica dove possano vivere e respirare ancora; magari anche a lungo. Probabilmente io percepisco un rischio, e allora ecco la Trilogia delle Erbacce. Ma forse potrebbe essere il tentativo, nobilissimo e inevitabile, di darmi un tono. 

 

trilogia delle erbacce copertine

 

Di certo chi ha letto le mie opere non era molto interessato a questo genere di argomenti; e non lo ero nemmeno io, sino a poco tempo fa. Ma si invecchia; si legge; si riflette. È inevitabile (o abbastanza inevitabile).

In fondo si inizia a scrivere per… scrivere. Quello che ci spinge a farlo non lo abbiamo nemmeno chiaro noi per primi. Col tempo, anche grazie al consenso (grande o piccolo che sia), che riusciamo comunque a raccogliere, ci domandiamo perché questa scrittura, e non un’altra.

Perché quel tipo di storie, quell’occhio, quello sguardo; e non un altro.

E col tempo e un poco di fortuna, riusciamo a trovare una risposta accettabile; almeno ai nostri occhi.

Un tempo mi domandavo, per esempio, come nasceva lo strano processo della scrittura. Mi arrovellavo (be’, non proprio, ma ci siamo capiti), e leggevo quello che pensavano e dicevano gli scrittori come Carver o King sulla scrittura. Credo che alla fine la parola più o meno definitiva l’abbia detta (e scritta), proprio Flannery O’Connor. Sì, ancora lei: quando affermava, forse durante una conferenza in qualche università, che alla lunga l’argomento perdeva di interesse. Agli occhi di chi scrive infatti, diventa decisamente noioso, e lo si lascia cadere.
Potrebbe essere, questo disinteresse che a un certo punto assale, un esito di una certa “maturazione”? Dopo un po’ di tempo, si diventa più sicuri dei propri mezzi, e si lasciano perdere questi argomenti che diventano del tutto privi di interesse; e ci si rivolge ad altro.

Ma un altro che poi, in fondo in fondo, non si discosta granché da quanto pensavamo prima. Anche gli interrogativi passano da una fase epidermica, a una più “approfondita” (quando scrivo così, per un attimo sembro uno scrittore della scuola Holden, vero?).

Però credo che un autore indipendente, se prende un po’ seriamente il suo mestieraccio, alla lunga arrivi a guardare alla propria scrittura con maggiore attenzione e serietà. Non gli basta che l’opera che autopubblicherà sia di qualità;  ma accompagnerà quella stesura con, appunto, riflessioni che qualche anno prima nemmeno avrebbe preso in considerazione.

Alla fine, l’autore che non bada a cosa il pubblico cerca, ma scrive quello che preferisce, e non si distacca da questa strana specie di impegno che si è dato (ma perché se lo è dato? Saperlo!), arriva appunto a credere che ha sviluppato una specie di strano patto con certe parole. E scrive appunto per dare a quelle parole una storia, o più storie, dove possano tornare a esistere, a vivere, a respirare e a camminare. E nient’altro. 

Ed è già sufficiente, credo, in un mondo dove certe parole devono sparire perché disturbano.

Elaborazione in corso…
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12 commenti

  1. In effetti chiedere “perché scrivi?” non mi sembra una domanda intelligente e io non saprei che rispondere.
    È qualcosa che hai dentro, che ti spinge a scrivere – come a disegnare, suonare, cantare, ecc.

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  2. Perché scrivi? È una domanda con molte possibili risposte, una volta avrei risposto: perché ho una storia dentro da raccontare, ora invece perché voglio evadere dalla realtà o perché voglio distrarmi da essa…motivi vari che cambiano con tempo

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  3. In effetti tanti interrogativi che sembrano interessanti quando si inizia a scrivere perdono smalto nel tempo. Un po’ è perché si è accettata la meraviglia – perché lo è, ed è anche un mistero – e ci si convive con più naturalezza; un po’ perché si presta attenzione ad altro. Adesso, per esempio, mi sembra di guardare uscire le frasi e cercare di capire quale sia l’unica forma che vogliono prendere. Domani, chissà come sarà. 😉

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  4. Perché scrivi?
    Boh, non lo so, ma se trovi la risposta ti spiace mandarmi una mail?
    Perché scrivi?
    Perché ci hanno provato in tanti a farmi smettere, ma alla fine non esiste una vera cura…
    Perché scrivi?
    Perché i miei personaggi sono molto più simpatici di tanta gente che mi invita fuori a cena.
    Perché scrivi?
    Perché Netflix costa troppo.
    Perché scrivi?
    Perché ho più probabilità di pubblicare un bestseller che vincere al SuperEnalotto. Soprattutto perché non gioco al SuperEnalotto.

    (potrei andare avanti per ore…)

    "Mi piace"

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