Dostoevskij, Tolstoj e le ripetizioni


 

di Marco Freccero.
Pubblicato il 5 ottobre 2020.

 

 

 

In questo momento (a dicembre uscirà il mio nuovo romanzo, autopubblicato come al solito; lo sapevi?), non dovrei pubblicare questo genere di articoli. 

Semmai, dovrei scriverne di quelli che parlano appunto della mia prossima opera, magnificandone la qualità insuperabile. 

Ma purtroppo ho deciso di agire altrimenti. Perché non seguo mai i consigli dei guru? Boh!

Un po’ di tempo fa lessi qualcosa dello scrittore ceco Milan Kundera. Diceva che nel testo russo di Anna Karenina nelle prime sei righe la parola “casa” ricorreva otto volte.

Siccome Tolstoj (se non ricordo male), revisionò dodici volte il romanzo (o forse quella santa donna della moglie?), c’è da scommettere che non si tratti affatto di una svista. Ma che abbia scritto esattamente così perché lo voleva. Non solo.

Per introdurre il discorso diretto, lo scrittore russo scrive: “Disse”. Nelle traduzioni italiane di quella ripetizione all’inizio del romanzo non c’è quasi traccia. E i “Disse” sono stati sostituiti da “interloquì”; “parlò”; “mormorò”; “bofonchiò”; “borbottò”, eccetera eccetera.

Bugigattoli, bugigattoli ovunque! 

E Dostoevskij?

Secondo il critico russo Toporov, in “Delitto e castigo” l’avverbio “improvvisamente” ricorre 560 volte. Una frequenza che ucciderebbe Stephen King, immagino.

Paolo Nori inoltre rivela anche all’inizio di quel romanzo la parola “bugigattolo” è presente due volte, esattamente come “padrona di casa”. Mentre “appartamento” lo troviamo 3 volte (sempre nel testo russo). Certo, Dostoevskij scrive “Delitto e castigo” in condizioni tutt’altro che favorevoli, e quindi le ripetizioni (oppure certe ripetizioni), sono inevitabili. Perché sono il risultato di stanchezza, irritazione, distrazione.

Ma di certo i traduttori hanno nelle orecchie (e nella testa), l’avvertimento della loro insegnante delle medie (e delle elementari):

“Ma non sai usare i sinonimi?”.

Oppure: 

“Perché non costruisci la frase in modo differente?”

E si adeguano di corsa. 

Forse anche l’idea di correggere Tolstoj o Dostoevskij è troppo irresistibile. Ma se Tolstoj scrive otto volte “casa” all’inizio del suo romanzo, probabilmente lo fa per una precisa ragione. E lo stesso succede per Dostoevskij. 

Ma: siamo certi che anche lasciando le ripetizioni, i lettori se ne accorgerebbero? La domanda è meno peregrina di quello che sembra…

E adesso entro in scena io, purtroppo.

La lista

Perché adesso parlo del mio prossimo romanzo (solo un poco).

Infatti ho preparato una lista di parole (in rosso). Sono quelle che tendo a ripetere. Quindi con la funzione di ricerca del programma di videoscrittura le ho scovate e le ho eliminate; ma non tutte.

Poi ho letto quegli articoli sulle ripetizioni di Tolstoj e Dostoevskij e mi sono chiesto: ho esagerato? Non credo; però.

Siamo certi che le ripetizioni siano sempre sinonimo di scarsa cura? Se l’incipit di “Anna Karenina” non fosse firmato da Lev Tolstoj ma da Marco Freccero, i lettori le accetterebbero senza protestare? Oppure…?

Come ho scritto in precedenza, Tolstoj voleva comunicare qualcosa ripetendo il termine “casa”. Per lui era un campo di battaglia dove aveva luogo la peggiore guerra. O forse il senso di quelle ripetizioni è un altro?

Ma questo non è certo un articolo sul ruolo del traduttore, che è un lavoraccio spesso pagato poco e male. Ci viene in soccorso la definizione: “Tradurre è tradire”, e questo potrebbe chiudere il discorso.

Mi rendo conto che poi questo discorso potrebbe essere preso come giustificazione da quanti riempiono le loro pagine di ripetizioni ed errori (“Faceva la stessa cosa anche Tolstoj!”). Magari è per questo che si evita di affrontarlo troppo direttamente. 

Ma da qualche parte ho anche letto della funzione pedagogica della ripetizione, utilizzata a questo fine forse (non ricordo bene dove però, purtroppo), proprio da Dostoevskij o Tolstoj. Oppure è un tentativo di critici “tifosi” di scusare e giustificare i loro autori preferiti? Come dice quel vecchio proverbio? “Anche Omero si addormenta”.

Di che cosa volevo parlare?

Wiesbaden, Germania

No, non del mio prossimo romanzo (però di fatto lo sto facendo: che essere astuto nonché diabolico sono io!). Nemmeno della traduzione.

Più semplicemente, volevo ricordare ancora una volta che non esiste alcuna perfezione da raggiungere, e i romanzi di Dostoevskij hanno una serie di difetti; per alcuni sono insormontabili e quindi liquidano questo scrittore come “illeggibile”. E si fanno forti del giudizio di Nabokov che parlava di lui come di un “drammaturgo”, ma nemmeno troppo bravo (forse perché un suo antenato era responsabile della prigione di San Pietroburgo dove Dostoevskij fu rinchiuso? Forse sapere che un proprio antenato ha avuto Fedor pronto alla fucilazione, ma ha dovuto obbedire alla grazie dello Zar, ha gettato il buon Nabokov nello sconforto?). Oltre a definirlo un mediocre scrittore, si capisce.

Ma affiancati a Gustav Flaubert, per esempio, sono ben pochi gli scrittori che possono resistere. La qualità della prosa del francese è eccellente. Ma Flaubert aveva i creditori che lo assillavano?

Quando Fedor decide di mettere mano a “Delitto e Castigo” vive una situazione terribile. Morta la moglie; morto il fratello che gli ha di fatto lasciato da accudire la propria famiglia, più la gestione fallimentare della loro rivista. Lui non ha un soldo e decide di partire per la Germania e giocarsi i pochi rubli che ancora possiede alla roulette. Vincendo, avrà denaro per chetare i creditori, e anche per poter scrivere in santa pace, senza essere perseguitato dalle preoccupazioni.

Che cosa può andare storto?

Esattamente tutto.

Perché perde ogni cosa e un albergatore di Wiesbaden presso cui alloggia si rifiuterà di fornirgli i pasti e anche la candela per scrivere di sera. Ed è da quella città che scrive al direttore di una rivista (mi pare “Il messaggero russo”), per proporgli l’idea di “Delitto e castigo” che ha già iniziato a scrivere proprio a Wiesbaden.

(Mentre scrivo mi ricordo di un episodio narrato in un buon italiano dallo scrittore islandese Thor Vilhjilmsson. A Firenze negli anni Sessanta restò senza un soldo. L’albergatore non batté ciglio e lo trattò come tutti gli altri clienti sino all’arrivo del vaglia. Lui amava l’Italia).

Ma tutte queste frasi, alla fine, che cosa significano? Dove voglio andare a parare?

Non lo so bene nemmeno io. 

Probabilmente desidero solo ricordare che ci sono al mondo molti romanzi e racconti che non sono perfetti: pieni di ripetizioni magari, ma la forza che racchiudono riesce a occultare agli occhi di tanti (ma non di tutti), certi errori, le incongruenze.

Comunque sono ben felice di aver passato al setaccio il primo libro del #progettoIOTA perché effettivamente certe ripetizioni sono spaventose, e devono essere liquidate

Elaborazione in corso…
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11 commenti

  1. Le ripetizione a volte sono fastidiose ma a volte non se ne può fare a meno. Vuoi perché i sinonimi non rendono l’idea di chi scrive, vuoi perché si rischia di appesantire la lettura sostituendo il sinonimo con una frase.
    Comunque un lettore attento se ne accorge, un distratto che legge velocemente no.

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  2. Le ripetizioni non è detto che diano fastidio, dipende dalla frequenza, tutto sommato quello che conta è la storia, anche se imperfetta…che poi la perfezione esiste?

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  3. “Diceva che nel testo russo di Anna Karenina nelle prime sei righe la parola “casa” ricorreva otto volte.”
    Uhm… dato che per colpa tua, sottolineo colpa tua, il comodino sta cedendo sotto il peso del cartaceo di Anna Karenina di prossima, spero, futura lettura, perché mica nessuno mi ha avvisato fosse un mattone di carta pesante e almeno prendevo l’ebook, sono andata a controllare, edizione Feltrinelli, nelle prime 6 righe c’è solo 2 volte casa. Arriviamo a 4 dentro l’intera prima pagina, ma a 8 niente da fare. Che peccato!

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  4. Mi inquieta che i traduttori snaturino lo stile dell’autore, anche se posso capirlo. Non dico che davvero tradurre sia tradire, però però… A me poi le ripetizioni piacciono. Non messe a vanvera, ma in certe figure retoriche sì.

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  5. Mi trovo daccordo con le riflessioni fatte in questo post. Lo stesso mi è capitato leggendo Addio alle armi di Hemingway in cui le ripetizioni delle parole sono martellanti e chiaramente fanno parte dell’effetto del suo stile. Forse la figura dell’editor nel corso degli anni è diventata sempre più autorevole e incombente, così come la forma letteraria è diventata più importante dello stile. Del resto pastorizzare gli scrittori è uno dei compiti del mondo editoriale forse per adeguarsi a un linguaggio sempre più riconoscibile e codificabile… Ma forse sono andato troppo oltre.

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