di Marco Freccero.
Pubblicato il 29 marzo 2021
Nel mio “progetto” (vogliamo chiamarlo così?) di rilettura di libri, sono tornato a leggere un altro romanzo dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque. Si tratta di “Tempo di vivere tempo di morire”.
Ancora una volta siamo in guerra, ma non è più la Prima Guerra Mondiale; siamo nella seconda. In Russia. Ormai sono alle spalle le fulminee conquiste della Francia, del Belgio, della Polonia e della stessa Russia.
Piccola annotazione: la traduzione di Neri Pozza (io invece leggo l’edizione degli anni Ottanta di Mondadori), è ancora una volta di Ervino Pocar. Quella degli anni Cinquanta. Peccato che non si sia deciso di farne una nuova. È una buona traduzione (se farete qualche ricerca su di lui, scoprirete che la letteratura tedesca pubblicata in Italia da Mondadori è frutto del suo lavoro di traduttore), ed è ancora godibile. Ma il tempo passa per ogni cosa e Remarque meriterebbe un’attenzione particolare.
L’esercito tedesco
In una delle prime scene del libro, abbiamo la fucilazione di quattro partigiani russi. Il protagonista Ernst Graeber fa parte del plotone di esecuzione ed è un soldato dell’esercito tedesco. Lo scrivo perché in Germania per anni nel dopoguerra si è insinuata l’idea che certi atti erano compiuti dalle SS, ma non dall’esercito, che non si sarebbe mai macchiato di alcun crimine.
Quando in Italia uscì il film di Nanni Loy “Le quattro giornate di Napoli”, si sfiorò l’incidente diplomatico perché si mostrava che l’esercito tedesco fucilava (come infatti faceva).
In questo libro accade lo stesso. Ci saranno state delle reazioni in Germania quando uscì nel 1954?
Secondo quanto sono riuscito a scoprire, questo libro è stato pubblicato integralmente in Germania solo negli anni Ottanta. Non sarei sorpreso se fossero state eliminate proprio le pagine dove si vede l’esercito tedesco fucilare. Il sogno di un esercito tedesco che partecipa alla guerra di Hitler senza fare del male ai civili doveva restare, la realtà doveva farsi da parte.
La parola
Sì, potrei sottolineare il suo modo asciutto di descrivere l’orrore (come la fucilazione dei partigiani, appunto). In apparenza pare distacco, freddo distacco del chirurgo che affronta la malattia con professionalità. Ma Remarque nell’orrore (della Prima Guerra Mondiale) ci è stato ficcato per anni. Desiderava solo mostrare che cosa c’è al di là della propaganda, della retorica e delle chiacchiere roboanti. Usava le parole non per nascondere o mentire; ma per rivelare. Per esempio: che l’esercito tedesco fucilava.
La forza di uno scrittore come Erich Maria Remarque non risiede certo nella sua denuncia della brutalità della guerra, e di quanto la pace sarebbe bella. A mio parere è altrove, e forse per capirlo occorre qualche notizia biografica.
Remarque nasce da una famiglia di origini francesi a Osnabrück nella Bassa Sassonia (adesso c’è un centro a lui dedicato con poche pagine in italiano). Nasce nel 1898 e ha quindi la sfortuna di assistere sia alla Prima (vi partecipa), che alla Seconda Guerra Mondiale (morirà in Svizzera nel 1970). Nel 1919 consegnerà le decorazioni ricevute al fronte e una decina di anni dopo uscirà “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Il successo è enorme ovunque, e dal libro viene tratto un film nel 1930 (in Italia lo vedremo però solo nel 1956).
Quello che merita però attenzione è la lingua di Remarque. Certo, è ridicolo che un italiano che non conosce una sola parola di tedesco si avventuri a parlare della lingua di Remarque. Ma proprio in “Niente di nuovo sul fronte occidentale” vediamo bene come la parola viene piegata agli scopi più bassi: spingere i giovani ad arruolarsi per l’onore dell’imperatore tedesco. Per la grandezza della Germania. E di come nel giro di pochi anni si ricominci di nuovo da capo: con il nazionalsocialismo di Adolf Hitler. Anche in questo caso è ancora una volta la parola a essere usata per annientare l’altro, per ridurlo a semplice idea, concetto, insetto: da schiacciare.
Remarque mi pare che non si avventuri mai nel cuore dell’essere umano per scoprire le cause del male, perché abbia questo fascino, da dove provenga, quale luogo lo generi; e perché dopo il macello della Prima Guerra Mondiale siamo infine riusciti a realizzarne un altro di proporzioni ancora maggiori. Lui per primo, come molti giovani, fu vittima della propaganda, e infatti nelle sue opere denuncia quegli insegnanti che cercarono (con successo) di fornire allo Stato non menti pensanti; ma macchine pronte alla distruzione.
Contro la propaganda
Di fronte a un apparato di propaganda che usa la parola per imbottire la testa della gente di altisonanti progetti, e per disegnare scenari di gloria (a scapito del nemico), questo scrittore ha deciso invece di usare quella stessa parola (la medesima arma si potrebbe dire) per smascherare l’inganno. E lo fa senza mai alzare la voce (la propaganda alza la voce); senza mai pretendere di avere ragione. Remarque si limitava a scrivere nel modo più preciso possibile. In modo secco, pacato. La sua intera opera mostra. Chiama per nome i fatti, ne svela l’autentica natura. La guerra è fatta di fame, paura e pidocchi; di uomini sventrati. Di morte.
Proprio in “Tempo di vivere tempo di morire” all’inizio, c’è un personaggio nel reparto; Steinbrenner che fa la spia della Gestapo. Occorre essere prudenti quando lui è nei dintorni; ma non lo è Immermann, comunista. Il primo usa la propaganda: non c’è alcuna ritirata, guai a parlare di ritirata. Si sta riorganizzando il fronte, e presto i russi saranno annientati. Gli alleati? Sono a pezzi, dappertutto, in Inghilterra e negli Stati Uniti ci sono rivolte e sommosse.
Il secondo non ha paura di parlare, ma se non viene arrestato e fucilato è solo perché è utile. Serve alla guerra (è un meccanico). E lui fa la guerra.
E qui forse l’ennesima indicazione di questo grande scrittore. La parola liberata dalla propaganda, dall’odio, non garantisce in realtà un bel nulla. Se la si deve usare in un certo modo, non bisogna farlo perché serve, è utile; ma solo come rivendicazione della propria umanità all’interno di un mondo che ha scelto, con gioia e consapevolezza, la crudeltà. Quindi l’opera di Remarque è inutile? Se ne può fare a meno?
Al contrario.
Il vero eroismo
Immagino che il suo scopo sia quello di rendere eroico l’essere umano.
La Prima Guerra Mondiale, come la Seconda, ha decretato la morte dell’eroismo. Per secoli, la guerra era una faccenda che si regolava faccia a faccia. Il soldato combatteva, e se combatteva con eroismo si vinceva la guerra; oppure si moriva. Ma con eroismo.
Nelle trincee della Prima Guerra Mondiale si muore asfissiati dal gas. Dai colpi dei cecchini; dallo scoppio di una granata. La guerra non è più una faccenda che riguarda i soldati; ma si fa carne da macello dei civili, e se vuoi essere più sicuro di cavartela, è meglio avere una divisa addosso.
L’eroismo nel Novecento è morto, non sta più nei campi di battaglia. Lì domina la fortuna, il caso. A un certo punto Immermann, il comunista che è anche meccanico, dice:
“Strano che nel nostro secolo eroico proprio gli spioni sian venuti su come funghi dopo la pioggia. Dovrebbe dar da pensare.”
Nel Novecento l’eroe di guerra è la spia, non il soldato.
Remarque prova allora a rendere eroe il lettore (un giorno chissà: potrebbe diventare un soldato. O forse lo è già ma a sua insaputa. Soldato ilare di un sistema che spolpa le risorse del pianeta). E lo fa mostrandogli l’inganno che il potere usa con la parola, quanto sia abile nel piegarla ai suoi voleri. Come la propaganda sia sempre in azione, anche adesso.
E quanto deve essere attento, vigile la persona a smascherarne gli scopi, gli inganni quotidiani che intossicano il pensiero. Lui riportava i fatti, usava la parola per indicare che cosa era la guerra, che cosa era diventata, al di là della retorica.
Consapevole però che gli eroi sono sempre pochi.
Ricordo bene il film Tempo di vivere, regia di Douglas Sirk. Molto bello con un finale tristissimo che lascia una sensazione di totale impotenza di fronte all’assurditá della guerra. Purtroppo la crisi economica derivante dal fatto di aver perso la prima guerra mondiale ha creato in Germania terreno fertile per l’ascesa di Hitler con tutte le tragiche conseguenze…
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Era un bel film. Dove recita appunto Remarque. 🙂
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ottima rappresentazione di questo romanzo, letto anch’io nei tipi della Medusa. Leggendo l’inizo dove parli della fucilazione mi sono tornate in mente le varie scene e le motivazioni psicologiche che spingeva da una parte la propaganda da un altro lato la voglia di partecipare al successo.
Remarque è un grande scrittore che adesso è sottovalutato.
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Io cercherò di rileggere tutti i suoi romanzi 😉
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leggendoti mi è venuta la voglia anche a me
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Ottimo!
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è vero
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