Giuseppe Cava, poeta savonese


torretta savona

 

 

di Marco Freccero. Pubblicato il 10 maggio 2021.

 

 

Di Giuseppe Cava si sa ben poco al di fuori di Savona. È perciò molto opportuno (o almeno credo che lo sia) spiegare chi sia stato.

È stato il più celebre poeta dialettale della città della Torretta.

In realtà credo che di lui si sappia altrettanto poco anche qui a Savona. Ma è inevitabile: se si scrivono poesie in dialetto savonese (che io capisco, ma non parlo) il mio pubblico sarà per forza di cose molto limitato.

Genova ha avuto l’attore Gilberto Govi, e il genovese è diventato un po’ più celebre (“rumenta” è un termine appunto genovese, anzi ligure, ma capita di sentirlo anche a Palermo).

Molti tirano in ballo la televisione che avrebbe imposto l’italiano ed eliminato i dialetti. Ci si scorda che l’opera di rimozione delle parlate dialettali era cominciata ben prima: in epoca fascista.

Ma chi era Giuseppe Cava? 

 

Di chi stiamo parlando? Di un autodidatta.

Nacque nel marzo del 1870 (il 12 del mese) per morire il 30 marzo del 1940 nell’ospedale San Paolo (adesso trasformato, dopo un abbandono durato vent’anni, in una elegante residenza con appartamenti che partono da 300.000 euro, sino al milione).

Dove nasce? In un appartamento che dava sulla piazza del Brandale, e che non esiste più perché colpito dai bombardamenti del 1943.

Il padre lavorava nella fabbrica siderurgica “Tardy e Benech”, e aveva partecipato alle Guerre di Indipendenza. Tardy e Benech erano due savoiardi che a Savona avevano deciso di aprire la loro fabbrica non solo perché c’era il porto. Ma perché in quegli anni i movimenti sindacali nel Regno d’Italia erano assai deboli. Adesso esiste corso Tardy e Benech dedicato a essi, nel quartiere dell’Oltreletimbro.

Ai tempi della fondazione della fabbrica siderurgica di Tardy e Benech, non furono pochi i bergamaschi che si trasferirono a Savona per lavoro. Un dettaglio che adesso (la popolazione di Savona scende di anno in anno, e le opportunità di lavoro sono modeste), fa sorridere. Savona volano dell’economia? Ebbene sì, lo è stata.

Giuseppe Cava frequenta le scuole elementari presso i padri Scolopi (sulla collina di Monturbano: lì adesso c’è la biblioteca, l’istituto magistrale, e quel teatro che mesi fa è stato messo in vendita, senza successo, pare). Poi, l’istituto professionale e dopo qualche anno entra nella fabbrica dove lavorava il padre.

Ha un incidente. 

Sovvertire l’ordine del mondo

 

Prima viene ricoverato nell’ospedale cittadino, quindi al Galleria di Genova, dove i medici decidono l’amputazione di una gamba.

Sembra la fine: è ancora ben giovane ma di fatto non può più lavorare. Eppure impara un nuovo mestiere: quello del tipografo.

E ritorna a scrivere, a leggere e a studiare: storia e letteratura. Non dimentica affatto però il suo passato di operaio. Agli inizi frequenta gli ambienti anarchici. Per questa ragione sarà processato e condannato a sei mesi di carcere e a una multa per aver partecipato a una riunione di anarchici in una casa presso il passo del Cadibona, dove si pianificava di “sovvertire l’ordine del mondo” (da Savona, non da Parigi o Berlino).

Sei mesi solamente per chi vuole sovvertire l’ordine del mondo? 

Scontata la condanna viaggia in Francia, Svizzera e Germania. Torna a Savona e fonda un giornale: “Il marciapiede”. Lì compariranno le sue prime poesie in dialetto savonese. 

Naturalmente il giornale non ha molta fortuna: attacca lo zar, e non solo. In breve la tipografia inizia a essere sorvegliata dalle autorità, e dopo circa cinque anni, il giornale chiude.

In to remöin

 

Poi, si avvicinerà agli ambienti socialisti. La morte in duello di Felice Cavallotti, lo amareggia moltissimo. È costretto a essere solo tipografo, e i soldi però sono molto pochi.

Inizia a scrivere versi in dialetto savonese e nel 1930 pubblica “In to remöin” (nel vortice), un libro di poesie dove Savona, e i suoi “tipi umani”, le sue tradizioni e i suoi dolori (suoi di Giuseppe) sono protagonisti. 

 

Ha successo. Lo apprezzano poeti come Angelo Barile e Filippo Noberasco.

Soprattutto le poesie dedicata alla figlia deceduta, Thea (un dolore che non lo abbandonerà mai), colpiscono per la delicatezza, la bellezza.

Nel 1934 grazie ad alcuni amici (come lo stesso Noberasco che la dirige) riesce a essere assunto presso la biblioteca del Comune; ma per poco.

Scoppia la guerra civile in Spagna, e lui non sta certo zitto. Viene denunciato (da chi, non si saprà mai), e chiamato a difendersi davanti a una commissione, che lui affronta a testa alta. L’ordine del regime fascista viene eseguito: nel 1938 viene licenziato dalla biblioteca del Comune. Per lui iniziano giorni durissimi.

Riesce a lavorare per il giornale “Il Lavoro” di Genova, scrivendo articoli (in italiano), sulla sua Savona (ma non solo). Tenterà anche la strada del romanzo d’appendice (non si campa mai con le poesie, oggi come allora). Scrive alcune commedie, che però non saranno mai rappresentate.

La città della Torretta. O del piccone?

 

E poi, appunto, scrive poesie. Ma ormai la sua vita arriva alla fine. 

Muore appunto nel 1940, prima della distruzione della piazza delle Erbe, di quel quartiere all’ombra del Brandale dove era nato e cresciuto. Bombardato nel 1943, raso al suolo nel 1945, circa cinquant’anni dopo dagli archivi del Comune è comparso un documento del Sindaco di allora, Andrea Aglietto. Che chiedeva di identificare i responsabili di quelle demolizioni presso il Genio civile, solo in parte giustificate dal pericolo di crolli. Cosa che non è mai avvenuta. 

Giuseppe Cava aveva dovuto subire già la perdita del quartiere dei Cassari, demolito in epoca fascista per fare spazio al palazzo del Governo (che non sarà mai realizzato. Sulle macerie del quartiere, nel dopoguerra, saranno erette le scuole che adesso si chiamano “Sandro Pertini”). Forse non avrebbe resistito a un ennesimo scempio a danno di una città che veniva cancellata a colpi di piccone, di demolizioni, quasi che si desiderasse annientare ogni legame tra essa, e quel popolo di Savona che lui tanto amava. E al quale aveva dedicato la sua arte.

Ci sarebbe poi da ricordare la demolizione della stazione ferroviaria (all’inizio degli anni Ottanta del Novecento). La distruzione, negli anni Sessanta, della villa De’ Mari (il parco, che si estendeva in centro città, era già stato divorato dalle costruzioni anni prima). Quello che fecero i genovesi nel 1528 (interramento del porto, decapitazione delle torri, demolizione della Cattedrale, della chiesa di San Domenico il Vecchio e del quartiere che sorgeva attorno alla Cattedrale).

Perché tutto questo? Perché un articolo del genere?

 

Non è solo per ricordare qualcuno che al di fuori di Savona (ma anche in questa città) è del tutto sconosciuto. 

Semmai è un articolo per rammentare a chi scrive (poesie; racconti; romanzi) che alla fine quello che conta non è il successo. Ma l’aver fatto buon uso del proprio talento, tanto o poco che sia. E questo lo diceva un altro poeta (e scrittore), quel George Mackay Brown nato e vissuto sempre nelle isole Orcadi.

Elaborazione in corso…
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9 commenti

  1. Mi hai fatto tornare in mente un altro scrittore e poeta dialettale veneto, anzi padovano proprio, anche se i suoi scritti erano per lo più umoristici: Dino Durante, che inventò Lo strologo, un almanacco che era il regalo di Natale per eccellenza ai tempi. Durante era nato molto dopo del tuo Giuseppe Cava, qui a Padova nel 1923 e ha avuto modo di collaborare con grandi giornali anche, Corriere della sera, Corriere dei piccoli, Il Gazzettino. Ha lavorato pure con Giovannino Guareschi (il papà di Don Camillo) e Indro Montanelli, per dire. E poi scriveva libri che già dal titolo ti regalavano il sorriso: “Messalina sul pajon”, “Va ramengo Lucressia”, “Catilina daghe un tajo”, “Napoleone corni e gloria”, “el prof. Luigi Bacello (Gigio Tega)”, “Gigeto el mona e altri racconti”, “La Bibia secondo Nane Speroncio”. Oggi introvabili, chi ne ha una copia se la tiene stretta. Se ne è andato nel 2002, in silenzio, e la sua memoria sta andando perduta, temo. 😦

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