L’artisticità nelle opere d’arte: cosa voleva dire Dostoevskij?


 

 

di Marco Freccero.
Pubblicato il 14 giugno 2021.

 

 

 

Mi pare che succeda una cosa un po’ strana, nella lettura di un romanzo. O meglio, non nella lettura di un romanzo in particolare. Ma nella maniera di affrontare la lettura delle storie (non solo romanzi, ma pure i racconti).

In pratica (credo sia un argomento che ho già trattato in passato), il lettore in quello che legge ci può trovare quello che vuole. Con il risultato che ogni lettore ci trova… quello che vuole, certo.

Sarà anche democratico (?); ma è anche abbastanza sbagliato.

Il povero autore…

Innanzitutto, il povero autore (e non mi riferisco di certo al sottoscritto), viene ridotto a ben misera cosa. Magari trascorre anni a scrivere, a leggere e a riflettere; e poi gli tocca ascoltare, della propria storia, tutto e il contrario di tutto perché “è così”. 

Con il risultato che ogni opinione sarebbe corretta perché ogni lettore, in base alle proprie reazioni, ai propri sentimenti, sviluppa una sua idea che è quella esatta. Non perché sia esatta, ovviamente; ma perché è la sua.

In realtà è una stupidaggine colossale. Ma è la conseguenza quasi inevitabile che si verifica perché, al di là della retorica, il libro è ormai ben poca cosa. 

Basta farsi un giretto sulle reti sociali più in voga per vedere (troppa) gente che “divora” libri (ma provare a leggerli, no?). E quasi nessuno che rilegga (come invece sto facendo io. Sto rileggendo “Uscita di sicurezza” di Ignazio Silone). Perché se si rilegge… Boh! Forse si teme di perdere la gara di lettura?

Ho sempre più l’impressione che il libro, la libreria, sia il rassicurante segnale che ciascuno invia agli altri: sono una personcina proprio per bene, vedete? Leggo!

Ma se costoro leggessero, saprebbero perfettamente che la lettura rende migliori se io lo voglio. Altrimenti: ciccia. È sufficiente dare un’occhiata alle biografie degli scrittori per chiudere per sempre con i libri, e mandarli al macero all’istante.

Non è di questo che desidero scrivere, oggi.

La colpa è anche dell’autore, in realtà. 

Ha le sue colpe

Che cosa vuol dire scrivere? Che cosa significa raccontare storie? Una domanda decisamente scivolosa, vero? 

Sì, possiamo rispondere: presentare qualcosa di interessante. Ed è senza dubbio un buon punto di partenza. Ma qualunque essere, anche un baldo australopiteco, potrebbe senza troppe difficoltà riuscire a confezionare qualcosa di “interessante”. E con questo non desidero certo affermare che l’obiettivo di scrivere una storia interessante sia da liquidare come una stupidaggine.

Ogni autore deve per forza fare in modo che il lettore volti la pagina; possibilmente fino alla fine del libro. Ecco perché deve (dovrebbe) essere interessante.

Però non è sufficiente. Ci deve essere anche dell’altro. Davvero se ci fermassimo a questo stadio, dovremmo arrenderci a quanto accade: ognuno prende un romanzo, ci trova quello che vuole (quindi tutto e il contrario di tutto), e va sempre bene. E il lavoro dell’autore di fatto viene inghiottito, sparisce. Tanto varrebbe che quel libro lo scrivesse un’intelligenza artificiale (come pare accadrà molto presto).

E invece…

L’artisticità nelle opere d’arte

In un libro della filosofa Tat’jana Kasatkina viene riportata un’affermazione interessante di Dostoevskij a questo proposito. Lo scrittore russo affermava che 

“In cosa si riconosce l’artisticità nelle opere d’arte? Nel poter vedere l’accordo, possibilmente pieno, di un’idea artistica con la forma in cui essa si incarna. Diciamolo in modo ancora più chiaro: l’artisticità, almeno per un romanziere, è la capacità di esprimere il proprio pensiero attraverso i personaggi e le immagini in modo talmente chiaro che il lettore, leggendo il romanzo, riesca a capire il pensiero dello scrittore esattamente così come lo capiva lui stesso quando ha creato la sua opera.”

Argomento ultrascivoloso, vero?

Di certo anche ai tempi del buon Fedor c’era un sacco di gente che scriveva ritenendosi degli artisti. Ma adesso! 

Adesso “tutto è arte”. Quindi il problema di produrre qualcosa di artistico nemmeno si pone: è già insito nell’opera! Scrivo quindi un romanzo e cosa produco? Arte!

Magari fosse così facile. Anzi no: per fortuna è estremamente difficile produrre qualcosa di artistico. Quindi un sacco di libri (simpatici, che vendono tanto, amatissimi dal pubblico), non lo sono perché non lo vogliono essere. Desiderano solo intrattenere (e non è per niente semplice).

Ce ne sono poi altri (i peggiori), che indicano al lettore non quello che è; ma quello che dovrebbe fare e tutto quello che deve mettere in atto (il prima possibile: cioè ieri) per diventare una persona perbene. Come se un libro potesse davvero realizzare qualcosa del genere (ribadisco: leggetevi qualche biografia di artisti, per uscire da questa credulità ridicola).

Ma torniamo a Fedor.

L’artisticità

Quello che afferma lo scrittore russo è davvero impegnativo. Chi scrive dovrebbe creare qualcosa di riconoscibile nelle sue opere: l’artisticità. Come?

Con i dialoghi?

Niente del genere. 

Lo scopo di una storia per Fedor è permettere allo scrittore di esprimere il proprio pensiero; ma non con i dialoghi. Bensì attraverso i personaggi e le immagini. E deve riuscirci così bene che alla fine il lettore comprenderà il pensiero di chi scrive esattamente come costui lo ha capito mentre scriveva (altrimenti non lo avrebbe scritto in quel modo, giusto?)

A questo punto è evidente che non ha più senso dire: “Ho letto questo libro e vuol dire questo”. Se succede questo, possiamo concludere che, secondo Fedor, qualcosa nella storia è andato storto. L’autore non ha capito quello che doveva capire; quindi nemmeno il lettore. 

Un bel problema. Anzi, un guaio

Un bel guaio.

C’è qualcuno che quando scrive storie si sofferma davvero sui personaggi e le immagini? Che cura questi due elementi in modo che poi chi legge capisca come l’autore ha capito?

E perché i dialoghi non sarebbero utili?

Infine: ha senso affermare queste cose quando comunque ogni lettore si fa la propria idea su quanto letto?

Belle domande. Spero che nessuno creda sul serio che io riuscirò a rispondere. 

Ma per Dostoevskij (così riporta Tat’jana Kasatkina) il pensiero dell’autore non si rivela nei dialoghi; ma nei personaggi e nelle immagini, appunto. Il che è un bel problema. 

Un po’ tutti (naturalmente), ci lanciamo nei dialoghi perché lì il personaggio svela quello che pensa, svela quello che è; ma per Fedor occorre guardare (anche) da un’altra parte.

Complicato, vero?

Ecco perché occorre avere meno fretta, e rileggere. Soprattutto Dostoevskij. 

E perché il dialogo pare meno importante, per Fedor?

Gli occhi

Per lui sono altre le cose importanti. 

Per Fedor lo scrittore “ha gli occhi” che non servono solo a vedere, ma per rivelare la profondità della realtà. E la storia, ogni storia (per Fedor), non è altro che una ripetizione di un’altra storia: quella che si trova narrata nei Vangeli.

Chi è Raskolnikov? Un giovane studente che non studia più; senza denaro (a parte quello che gli manda la madre). Non lavora. Ma se ha due spiccioli, ecco che li dona.

Ma dopo aver ucciso la vecchia usuraia e la sorella di costei, e rubato, che cosa fa della refurtiva? La spende? Mette all’istante in pratica il suo proposito di rendere migliore il mondo?

No: la nasconde sotto una pietra e li resterà intatta finché non si costituirà. 

Ma Raskolnikov potrebbe essere anche la figura della vecchia vedova che fa l’elemosina nel tempio di Gerusalemme. 

Prima, passano i Bill Gates dell’epoca, e lasciano le loro cospicue offerte, con il loro codazzo di ammiratori e con i dottori della legge tutti compiaciuti di avere dalla loro parte persone così “sensibili”. 

Poi, arriva una vecchia vedova, povera, che mette due spiccioli. Ma era tutto ciò che aveva per vivere.

Infatti quando l’ubriacone Marmeladov (e così torniamo a Raskolnikov) finisce sotto le ruote di un carro, e viene trasportato a casa, Raskonlikov distribuisce senza nemmeno pensarci tutto quello che si trova nelle sue tasche. Non ha nulla, è in arretrato con il pagamento dell’affitto, ma dona quel poco denaro che ha ancora. 

Ah, certo: logica vorrebbe che non facesse nulla del genere. 

Di solito la logica è l’alibi dei moribondi. 

L’immagine bi-composta: vale a dire?

Qualcuno dirà: “Alla faccia del bicarbonato di sodio! E io dovrei sapere tutto questo per leggere Delitto e castigo”?

No. 

Però credo aiuti a capire che uno scrittore come Fedor ha un suo modo rigoroso di costruire immagini e personaggi. E solo dopo i dialoghi.    

Secondo questa filosofa russa, Fedor nei romanzi ricorre (non sempre ovviamente), all’immagine bi-composta (afferma esattamente questo) della realtà. La realtà che egli scrive e descrive rimanda al Vangelo. Ed egli lo farebbe per un motivo ben preciso.

Mostrare che quella storia evangelica prosegue nella sua Russia. Per lui, conclude la Kasatkina, ogni uomo è chiamato a rispondere a quella storia narrata nei Vangeli; non è affatto un semplice riferimento dotto, ma una specie di chiamata, un invito che Fedor rivolge a ogni lettore. 

Nei taccuini per il romanzo “I demoni” Dostoevskij scriveva:

“Immaginatevi tutti cristi: ci sarebbero i poveri?”.

Nella Russia “assediata” dall’Occidente, dall’ateismo e dal socialismo, Fedor tentò di spiegare a chi leggeva le sue opere che il compito di ogni russo era scoprire la realtà e dare a essa una risposta alla luce della fede ortodossa. Alla luce di quel Cristo che lo ossessionò per tutta la vita.

Lui era gli occhi che guardavano dentro la profondità della realtà; agli altri il dovere di essere Cristo, diceva Fedor.

6 commenti

  1. Ho iniziato a leggere l’articolo pensando che in effetti non c’è niente di male nel fatto che il lettore si appropri del testo, per così dire, e lo interpreti a modo suo… ma finisco di leggerlo avendo più o meno cambiato idea. Forse è proprio così: se sai scrivere a un certo livello è la tua visione della realtà che esce dalla lettura, meno manipolabile e interpretabile da parte del lettore rispetto a quando, per esempio, sei uno scrittore onesto ma che vola più basso. Interessante riflessione.

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  2. Dunque. Inizierei col dire che non possiamo tutti essere Fedor, o meglio ancora, di Fedor ce n’era solo uno. 😉
    Poi, il “ruolo” dello scrittore al giorno d’oggi non può più essere quello dello scrittore ai tempi di Fedor. Basta pensare a come sono cambiati i tempi: ai suoi c’erano a malapena i giornali e non tutti sapevano leggere; oggi abbiamo decisamente più “media” ed è più semplice fare “vedere” personaggi e immagini in televisione/streaming che su un libro, nonostante tutti sappiano leggere.
    Ma ti faccio io una domanda: secondo te, tornasse oggi Fedor e vivesse qui in Italia, che tipo di romanzo potrebbe scrivere di questi nostri tempi assurdi? 🙂

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