di Marco Freccero.
Pubblicato il 27 settembre 2021.
Alcuni mesi fa ho letto un libro, e qui non c’è una grande novità da segnalare, giusto?
Mi sono spesso domandato: Ma in Germania, durante gli anni di Hitler, nessuno si oppose? Per questo motivo ho acquistato un piccolo libro intitolato “La rosa bianca”.
L’autrice, Inge Scholl, è morta nel 1998, e lo ha scritto per ricordare la storia della sorella Sophie, del fratello Hans, e di quel gruppo di giovani che furono ghigliottinati nel febbraio del 1943.
Avevano creato un piccolo movimento di resistenza, “La rosa bianca”. Ma prima…
Qualcosa di grande
C’è sempre un prima.
Sophie ha dodici anni e il fratello Hans quindici quando entrano nella gioventù hitleriana. Come tanti altri ragazzi tedeschi, anzi: milioni. Ne sono semplicemente entusiasti.
Il contatto con la natura; la possibilità di incontrare e di stare con tanti altri ragazzi che mai e poi mai si sarebbero potuti conoscere. L’idea di partecipare a qualcosa di grande: la costruzione di una nuova Germania. E poi?
E poi le marce compatte, lo sguardo fiero puntato là davanti, le divise, i canti.
Il padre dei ragazzi Scholl vede lontano: considera i nazisti dei lupi e dei ciarlatani, e Hitler come il pifferaio di Hamelein. Ma i suoi ragazzi non ci sentono. Non credono a quanto dice.
Le divise.
I canti.
Lo spirito di corpo.
Lo scopo, grande nobile, di cui si è parte e al quale ciascuno può dare un contributo.
Solo questo vedono.
Qualcosa però inizia a scricchiolare: perché gli ebrei no? La risposta è semplice: a volte, nella costruzione di qualcosa di grande, è necessario compiere scelte dolorose.
Hans, il fratello di Sophie, che ama cantare canzoni popolari anche russe e norvegesi (non solo tedesche, o gli inni del partito nazista), riceve l’ordine di non cantare più quelle canzoni non tedesche. Non importa che siano belle: non sono tedesche.
Poi un viaggio a Norimberga, e la conseguente delusione. Quegli uomini che si erano idealizzati, hanno invece dimostrato di essere uomini uniformati, che ragionano per slogan, come se fossero il prodotto di uno stampino. Non c’è vera libertà, si devono solo ripetere le parole d’ordine, gli slogan che vanno per la maggiore.
Altrimenti sei fuori. (Ricorda qualcosa? Le reti sociali, l’uniformità che impongono…).
La frattura definitiva? Quando il fratello Hans schiaffeggia il comandante che aveva ordinato di togliere la loro bandiera, e di usare solo quella del partito. Ma era la “loro” bandiera, che Hans, e tutti i ragazzi del gruppo, avevano creato, alla quale avevano prestato giuramento.
Hans sarà degradato.
Qualcosa di miserabile
È a questo punto che Sophie, Hans, Inge iniziano a guardare. A osservare. Di quel partito che ai loro occhi doveva dare senso e felicità alla loro vita, non resta che la faccia lugubre e disumana. D’un tratto sentono parlare delle SA; dei campi di concentramento. Forse Hitler non sapeva (il loro ultimo tentativo di non gettare via quel tutto nel quale erano vissuti). Al contrario; Hitler sa tutto, spiega loro il padre.
Quel padre che sin dall’inizio li aveva avvisati: sono lupi, sono ciarlatani.
Lentamente, i fratelli Scholl iniziano a interrogarsi su quanto sta accadendo alla Germania. Soprattutto, arrivano alla conclusione che qualcosa di miserabile accadrà al loro Paese. E qui scatta una domanda, piuttosto semplice.
Perché essi aprono gli occhi, mentre altri, troppi, preferiscono battere le mani? Perché loro e pochi altri hanno abbandonato il male?
Non furono gli unici a farsi delle domande. Non furono i soli che vennero a sapere delle azioni delle SA, dei campi di concentramento e di quello che avveniva lì dentro. Di sicuro altri scelsero di non seguire più il partito nazista; ma restarono pochi. (Anche se in Germania non ci fu mai un movimento di resistenza esteso come in Italia, non mancarono le voci che si opposero. Più di quante ne immaginiamo).
Ma perché alcuni abbandonano il male? Perché altri, spesso la maggior parte, lo seguono? Perché certe notizie, certe informazioni, inducono alcuni ad abbandonare, mentre altri invece proseguono, spesso sino alla fine?
L’amicizia dello scorpione
Prima considerazione. Ogni totalitarismo è, a una prima occhiata, amichevole. Come lo scorpione.
Basta pensarla come i capi, o i caporioni. E adeguarsi velocemente quando i capi cambiano idea (e lo fanno: tutto è relativo. I nemici di ieri sono gli amici di oggi. Ma potrebbero diventare i nemici di domani).
Quando si entra a far parte di un gruppo (anche di lavoro), si sviluppa uno spirito di corpo che induce a creare un clima di compattezza, di unità di intenti, che chi ne è fuori, o superficiale, non può capire facilmente.
Quindi si scusa. Ci si adegua. Si vede che qualcosa non va, ma si accetta. Fa parte del gioco, si pensa e si dice. Il momento richiede questo. Poi, tutto si aggiusterà.
In realtà è un pezzo di umanità, di dignità che viene cancellato. L’obiettivo è uniformare. E si scende a compromessi perché lo scopo è alto, grande, immenso. Vogliamo dare il nostro contributo, non stare con le mani in mano. “Prima” nessuno aveva mai osato tanto, mai nessuno aveva avuto idee tanti grandi e nobili. Qualche vaso andrà rotto? Pazienza.
Solo che non si tratta di vasi: ma di esseri umani.
Seconda considerazione. Si sceglie, sempre. Anche non scegliere è una scelta. Fa meno rumore. Agli altri offre l’impressione che chi agisce così sia meno intelligente.
Al contrario: chi non sceglie è estremamente intelligente. Non solo perché evita le ritorsioni nell’immediato. Ma perché se le cose poi andranno molto male o malissimo, potrà consolarsi e cauterizzare l’eventuale blando rimorso affermando: “Non ero solo. Eravamo tanti. Milioni”.
Resta la domanda. Perché quando Hans viene degradato, il suo gruppo non si ribella?
Oppure: perché Hans non si adegua, a quel punto?
Inizierà invece un cammino che lo porterà a conoscere Carl Muth; Theodor Haecker. A creare attorno a sé un piccolo gruppo (di cui farà parte Sophie) che distribuirà i volantini sino ad Amburgo e a Vienna, e in altre città della Germania, prima di essere arrestati, processati, e ghigliottinati.
Già: la libertà. Anche in una dittatura c’è un luogo dove si resta liberi. E lì, ogni giorno, ogni ora, si è chiamati ad adeguarsi oppure a ribellarsi.
A uniformarsi, oppure a restare liberi. Ma perché alcuni (pochi) comprendano davvero il valore della libertà, mentre la maggioranza preferiscano far finta di nulla, restare “a bordo” per vedere come andrà a finire: non lo so proprio.
Caro Marco, la domanda che ti poni è universale. Non solo riguardo al nazismo, di cui ha raccontato con la rosa bianca, ma il male in sé.
Se non ho capito male, tu dici che il male è subdolo perché soddisfa quel bisogno di uniformarsi, di sentirsi parte, che c’è in ciascun individuo. Se non si hanno gli strumenti per cercare un senso di appartenenza che non abbia bisogno di sentirsi raccontare chi si è e cosa si deve fare, se mi passi la semplificazione, allora ecco che si cade nella trappola. Funzionano così tutte le sette, vecchie e nuove. Il Nazismo, ma anche alcuni recenti movimenti di opinione basati sul nulla. L’accesso alle informazioni, o meglio, alla conoscenza, è fondamentale. E’ così che i ragazzi hanno scoperto la verità. Vivendo e conoscendo. Bellissima metafora della vita.
Non so perché pur conoscendolo non ci allontaniamo dal male. Forse chi non lo fa è perché non ha lacuna alternativa. Grazie per questa bella riflessione
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Eppure sapere non basta. Conoscere non è sufficiente. Mi tona in mente “La famiglia Karnowski” dove un professore di biologia sa che le teorie sulla razza sono stupidaggini. Eppure si iscrive al partito nazista, e così diventa preside del liceo.
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Il male esiste Marco e non ha una spiegazione. Altrimenti avremmo potuto cancellarlo
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è una domanda difficile e non credo ci una risposta facile:
perché solo pochi comprendono il valore della libertà, e quindi si ribellano, mentre la maggioranza fa finta di nulla. Credo sia una questione di coraggio o di paura, c’è chi preferisce credere alle apparenze e quindi non si ribella perché ribellarsi costerebbe troppo, costerebbe lasciare la comoda illusione in cui vive per affrontare la dura realtà con il relativo prezzo da pagare.
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Credo però che anche chi si ribella abbia paura. Ce l’ha sino alla fine. Eppure: si ribella.
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Si può capire l’entusiasmo di ragazzi che sentono di partecipare a una grandiosa impresa, facendo parte di una squadra. Perché loro aprano gli occhi e cambino strada, non saprei dirlo; restare a bordo, però, è sempre più facile che accettare il prezzo da pagare.
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Ho scritto il contrario di ciò che volevo dire (!): che loro aprano gli occhi e cambino strada, è corente e logico; restare a bordo, però, è sempre più facile che accettare il prezzo da pagare (quello che loro pagano è molto alto).
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Forse ci si adegua perché non si ha alcuna stima di se stessi. Ci si considera un nonnulla, che non può fare la differenza…
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Il male? Esiste e spesso si finge di non vederlo. Non per miopia ma per interesse. Salire sul carro dei vincitori è facile perché così si ottengono favori personali. Più complicato è lo scendere se le cose vanno male, perché vuol dire ammettere gli errori e spesso, troppo per i miei gusti, la persone non lo vogliono ammettere. Così in Germania al termine della guerra perduta si è preferito ignorare tutte le brutture prodotte da Hitler. Così in Italia dove cambiare bandiera è un gioco da ragazzi
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Grazie Marco, gran bella riflessione. Leggerò il libro.
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Ottimo!
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