di Marco Freccero. Pubblicato il 25 ottobre 2021
Stig Dagerman è stato uno scrittore svedese, suicida all’età di trentuno anni nel 1954 (se ricordo bene). In Italia non ha il seguito che meriterebbe, ed è conosciuto da pochi solo grazie alla casa editrice Iperborea. (E a chi altri?).
Sembra che una delle molle che lo abbia indotto ad uccidersi sia stata anche la relazione tra la moglie e lo scrittore inglese Graham Greene. Sì, l’autore de “Il console onorario”; “Un americano tranquillo”; “Il potere e la gloria”, nonché della sceneggiatura del film “Il terzo uomo” (con Orson Welles). E di tanti altri libri.
Sia Greene che Anita Bjork (attrice, anch’essa svedese) affermarono di avere iniziato la relazione dopo la morte di Stig. Alcuni dicono che iniziò prima. Quello che si sa è che Greene fece dire a un prete una messa proprio per Stig Dagerman dopo il suo suicidio, perché la moglie era una sua buona amica. Ma non è certo di questo che desidero parlare.
Stig un uomo senza compromessi
Stig Dagerman, dicevo. Scrittore, giornalista, anarchico. Sempre dalla parte degli sconfitti.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale va in Germania. Vuole vedere da vicino quel Paese, ridotto a un cumulo di macerie, che in Europa ha scatenato l’inferno per poi esserne travolto. Scrive una serie di articoli che poi confluiranno in un libro (“Autunno tedesco”, del quale ho parlato in passato su questo blog). Sarà attaccato per il tenore della sua opera.
Si chiede Dagerman: Davvero un tedesco affamato e umiliato amerà la democrazia?
Domanda tutt’altro che superficiale: se si deve costruire una nuova Europa su basi differenti, questa nuova costruzione non può certo partire con il disconoscimento della dignità dei tedeschi. Della loro umanità. Ma per tanti in Svezia, si tratta di discorsi troppo teneri, troppo dalla parte degli sconfitti (la Svezia scelse la neutralità durante il conflitto).
Già: se si decide di stare dalla parte dell’uomo, c’è sempre qualcuno che sale in cattedra e dice: “È troppo. Qui si esagera”. Forse una delle autentiche ragioni della sua morte è proprio la scelta di rifiutarsi di diventare “conforme”. Alcuni lo fanno, ma solo finché non trovano il consenso, il successo; quindi si adeguano velocemente. Lui rifiutò la corazza del conformismo pur di andare avanti.
Bambino bruciato
Di recente (qualche mese fa in realtà, esattamente a luglio), ho letto il romanzo “Bambino bruciato”, forse uno dei più celebri della sua produzione letteraria. Che romanzo è?
I temi cari a Dagerman ci sono tutti, e chi lo frequenta li ritrova, e non potrebbe essere diversamente. Magari potrà affermare che in fondo sono sempre gli stessi: il dolore, la morte, la morte di chi si ama. L’inadeguatezza di chi resta. L’impossibilità di trovare la serenità, di arrendersi all’ipocrisia, al conformismo. Il desiderio sempre tenace di piantare gli occhi sull’uomo e osservarlo con sguardo chirurgico.
Ma in fondo chi racconta storie racconta sempre le stesse storie.
Dagerman è una mina vagante, il bastian contrario, ma non per avere su di sé le attenzioni del pubblico e della critica e recitare la parte dell’originale a tutti i costi.
Non essendoci per lui alcun senso, intrappolato in una vita meravigliosa ma folle, splendente eppure malata, lui rifiutava di indossare la maschera della persona assennata e perbene.
Ma il romanzo?
Inizia con il funerale di una madre. Negli ultimi tempi stava male, era diventata gonfia. Nel negozio del macellaio, cade a terra, batte la testa. Fine di una vita.
Il figlio, fidanzato con una ragazza che piange spesso e pare abbia sempre freddo, scoprirà molto presto che il padre, da qualche tempo, ha un’altra.
La storia, portata avanti da un narratore onnisciente, presenta anche alcune lettere che il figlio scrive… A se stesso. Una specie di omaggio alla madre, che gli aveva consigliato proprio quella pratica: scrivere lettere a se stesso. Ma inizierà questa abitudine solo con la morte della madre.
Frequenta l’università, ma ben presto decide di studiare a casa. Poi, di rimandare un certo esame, ma al padre dirà di averlo superato con lode, e per questo falsifica sul libretto la firma del professore.
Che cosa sta succedendo in questa casa di Stoccolma?
Semplice: il ragazzo si innamora della matrigna. Ricambiato.
Il solito, chirurgico Dagerman
Qualcuno potrebbe credere che si tratti di una storia torbida, di quelle che vanno di moda (credo che vadano di moda). Nulla del genere. Stiamo parlando (meglio riscriverlo), di Stig Dagerman. È sempre lui, il “consueto” Stig.
Se è vero che un autore di solito mal si concilia con il suo tempo, con le mode e con il panorama letterario in cui vive; Dagerman è probabilmente uno dei più fuori moda di sempre. Ogni libro che si affronta (non molti, visto la sua morte) si può star certi che c’è sempre qualcosa che coglie di sorpresa.
C’è il dolore, c’è il desiderio di purezza di questo giovane (eppure anche la madre aveva avuto un amante. E negli ultimi tempi era diventata semplicemente insopportabile).
C’è l’impossibilità di arrendersi alle abitudini, perché anche il sentimento più potente dell’universo (l’amore), ben presto resta imprigionato nei binari consueti, nella routine.
Forse è qui il cuore della narrazione di Dagerman. Adesso comprendo perché “Bambino bruciato” è considerato dalla critica il romanzo di Dagerman da leggere. Perché lì c’è, probabilmente, l’autore. Certo: un autore è spesso nelle sue storie. Eppure è più che mai evidente che in questa storia Stig è ben presente.
Il desiderio di purezza, a ben vedere, è appunto solo un desiderio: possiamo definirlo un poco fondamentalista? Perché non esiste nulla di puro a questo mondo. È un ideale e come tale: pericoloso.
Lo sguardo che il protagonista rivolge all’amore, la consapevolezza che esso naturalmente diventa anche abitudine, e perde la follia, il fuoco degli inizi, è qualcosa di assoluto. Forse di troppo assoluto?
È come se questo autore svedese ci volesse comunicare che la vita a un certo punto non ha più la capacità di reinventarsi, di rinascere.
Nell’orizzonte di Dagerman l’unico modo di rendere nuovo ciò che è diventato vecchio e stantio, è l’allontanamento. Con il rischio di produrre ovviamente un corto circuito quasi fatale per il protagonista.
Certo: il giovane si innamora della matrigna perché in essa rivede anche la madre. In lei vede inoltre una purezza che il padre non comprende affatto (è un falegname). La purezza non è solamente è la volontà di non scendere a compromessi, non accettare quindi che la vita comunque proceda, cambi, vada avanti e così facendo, per forza di cose, si “sporchi”.
Bensì è il voler sempre ritrovare nell’altro quello che all’inizio colpisce, seduce, abbaglia; che ci costringe a emergere finalmente alla vera vita abbandonando, almeno per un poco, i panni del conformismo. La purezza come libertà dall’ipocrisia, dalle frasi fatte, dalle abitudini.
Ma quanto può durare? Poco, esatto.
La vita è esattamente questo: fango. Lo aveva ben capito Caravaggio che nei suoi dipinti raffigurava uomini con i piedi sporchi.
Ma il mondo non è puro.
Il finale sfiora la tragedia, ma non sfocia in essa. Alla fine il compromesso sembra abbracciare davvero tutti. Sarà davvero un male?
Un perfetto sconosciuto questo Stig Dagerman e chissà quanti altri lo sono.
Un autore difficile a quanto pare.
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Non troppo difficile, secondo me.
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potrei tentare di leggerlo
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Non conoscevo questo autore, sono andata a leggere la sua biografia su Wikipedia, una vita abbastanza tragica, segnata da abbandoni e lutti. Mi sembra che molto di questa vita sia trasposta nei suoi scritti.
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Non conoscevo questo autore, sono andata a leggere la sua biografia su Wikipedia, una vita abbastanza tragica, segnata da abbandoni e lutti. Mi sembra che molto di questa vita sia trasposta nei suoi scritti.
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Non conosco questo autore, certo non era una personcina allegra da come lo descrivi. Forse un giorno lo leggerò, ma non adesso, inteso in questo periodo storico. Abbiamo abbastanza drammi nell vita reale e quindi almeno nei libri cerco altro. 🙂
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Proprio perché la vita è piena di drammi bisogna leggere certi libri.:D
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