di Marco Freccero.
Pubblicato l’8 novembre 2021
Una delle molle che tanti anni fa mi spinse a scrivere, a raccontare storie insomma, fu l’incontro con una strana figura di prete: don Lorenzo Milani.
Che conobbi grazie alle sue lettere (pubblicate da Mondadori: le lessi prendendo a prestito il libro dalla biblioteca; poi lo comprai). Col tempo ho poi acquistato anche la biografia di Neera Fallaci (sorella di Oriana), ormai introvabile. E poi pure “Esperienze pastorali”; “Lettera a una professoressa” e anche altro ancora.
Proprio nel mese di luglio ho riletto la sua biografia. E mi sono domandato (domanda sciocca, me ne rendo conto) …
Una questione di lana caprina
Mi sono chiesto non se lui approvasse (banale. Lui non approverebbe) questa voglia di raccontare storie.
Bensì se c’è un qualche legame tra la mia scrittura di adesso, e la sua idea di scrittura. Che a moltissimi sembrerà una questione di lana caprina; e lo è senz’altro.
Ma è la MIA questione di lana caprina. E pure in questo caso la risposta alla domanda dovrebbe essere: No, probabilmente.
Perché per don Milani la scrittura era l’arma dei poveri per farsi rispettare, per smettere di essere timidi e rassegnati e divenire uomini. Vale a dire: determinati e duri. Agli occhi di tanti: maleducati, classisti, arroganti.
Se un laureato saliva sino a Barbiana (il “penitenziario ecclesiastico” come lo chiamava), veniva umiliato. Letteralmente. D’altra parte, i poveri (diceva lui) erano umiliati da generazioni e i “Pierini” (i laureati appunto, come li chiamava), non sembravano granché turbati. Da generazioni vivevano beatamente nelle loro ville, nei loro casali. Quindi potevano (anzi: dovevano) subir tacendo le offese che rovesciava addosso a loro. Molti infatti non tornavano più. Ma alcuni resistevano e diventavano suoi amici.
Ma per lui uno che per esempio volesse pubblicare, desiderava solo parlare ai Pierini, essere ascoltato e ben accolto da loro. Per poi entrare a far parte del P.I.L. (Partito Italiano dei Laureati); quello che governava (governava?) il Paese. Mentre la parola doveva solo servire per parlare ai poveri. E ridare a essi la parola perché potessero finalmente diventare cittadini, e non sudditi.
Migliorare i lettori?
Credo di averne già parlato in passato: ma per anni la mia scrittura è stata pesantemente influenzata proprio da don Lorenzo. Per me doveva servire a rendere migliore il lettore, con il risultato di scrivere storie dove non c’erano personaggi, ma marionette. Dove le idee stritolavano sia l’azione, che appunto i personaggi. Non erano malaccio, sia chiaro. Ma erano di fatto di scarso interesse. E questa è una lezione parecchio importante: occorre allontanarsi dai maestri anzi, liberarsene. Essi forse accendono il fuoco, ma poi sta a noi decidere che cosa farne: se scaldarci oppure illuminare.
Se si vuole migliorare i lettori (ma perché solo i lettori? Quelli che non lo sono meritano di andarsene al diavolo?), basta acquistare la tessera di un partito o di un sindacato, e darsi da fare. Insegnare alle persone che è possibile fare politica in modo nobile, e non per sistemare gli amici e gli amici degli amici. Andare casa per casa, non a promettere parcheggi o altro; ma a risvegliare nei rassegnati o negli sconfitti che invecchiano nelle periferie di questo Paese, il desiderio di costruire davvero una comunità.
Quindi don Lorenzo mi chiamerebbe “bischero” (in realtà userebbe qualche altro termine: era toscano), perché anche se non sono sotto contratto di un editore, di fatto cerco di parlare ai Pierini; non agli umiliati. E uso la parola non per liberarli dal giogo dell’ignoranza e della rassegnazione.
Da rammentare che don Lorenzo era figlio di una delle famiglie di Firenze più ricche. All’inizio degli anni Venti nella città toscana c’erano una quindicina di automobili. Due appartenevano alla sua famiglia. Il Pierino che è un po’ il protagonista di “Lettera a una professoressa” era in realtà (anche) un suo nipote. Che fu intervistato perché passò la maturità in un liceo di Milano con la media del 9. E lui spiegò la ragione del suo successo affermando: “Bisogna vendere, e io so vendere bene”.
Non era lo studio a renderlo bravo: era la sua capacità di parlare, la sua dialettica. Un’affermazione che era, praticamente, una pietra tombale per la scuola pubblica.
Autopubblicazione? Non basta
Come mi giustificherei? Riuscirei a trovare una “spiegazione” accettabile (per lui)?
Affermare che autopubblico lascia il tempo che trova. Si tratta pur sempre di usare dei mezzi del P.I.L. per parlare comunque sempre a dei Pierini.
Certo: io per scrivere le mie storie non seguo le mode (“E si vede!” direbbe qualche arguto commentatore), e questo potrebbe essere un piccolo dettaglio a mio favore. Con la Trilogia delle Erbacce ho cercato di raccontare storie di gente che ben pochi hanno voglia di leggere. Perché è l’umanità sconfitta e dolorante che deve essere messa in ombra per non disturbare la narrazione rutilante e piena di luci che va per la maggiore. Un tipo di umanità deve sparire dalla narrazione, salvo ricomparire come “caso umano”, quindi strappalacrime in televisione. E possiamo pur star certi che in quel caso, ci sarà qualche “filantropo” che interverrà per risolvere la situazione incresciosa.
E tutti gli altri? Be’, finché non finiscono in televisione a fare i casi umani, perché preoccuparsene?
Ma il punto è un altro, credo.
I poveri siamo anche noi
Benché parecchie cose NON siano cambiate da quegli anni (per esempio l’abbandono scolastico in questo Paese è tornato di moda, a quanto pare. Presto finirà nel dimeticatoio), io lo sono.
Se rileggo qualche riga di quello che scrivevo allora, non dico che mi scappi da ridere; questo no. Ma mi rendo conto che non poteva proprio funzionare.
“Perché, adesso funziona?”
Domanderà il solito arguto commentatore.
Ebbene sì.
La mia scrittura con il tempo si è separata da tante illusioni e sogni. È diventata sobria, meno retorica, più leggibile. E se non scalo le classifiche: pazienza. Ho la presunzione di aver interessato una manciata di lettori con le mie storie. Di averli indotti ad avere uno sguardo differente verso le persone. Forse.
Perché naturalmente non c’è alcuna certezza al riguardo. Raccontare storie, pubblicarle, è davvero come disegnarsi un bersaglio sulla schiena. Qualcuno che ti vede prima o poi lo incroci.
Dimenticavo: negli ultimi tempi don Milani, prossimo alla morte, disfece la sua scuola. Non voleva che proseguisse, perché era ben consapevole che poteva esistere solo finché c’era lui. Una volta morto, toccava agli altri proseguire, in qualche modo. Non pretese che si facesse come lui; solo che non si perdessero di vista i poveri.
Ah, i poveri siamo anche noi.
Adesso lui riposa a Barbiana. Si è fatto seppellire coi paramenti e gli scarponi. Egli era dei suoi montanari, ormai; apparteneva a essi. Non sono mai salito lassù, eppure mi ero detto che lo avrei fatto, prima o poi.
Andrai a salutarlo, un giorno, intanto a lui giunge questo tuo omaggio e sono certa che gli faccia piacere. Bravo Marco!
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Chissà. Non sono tanto sicuro di riuscire ad andare a trovarlo.
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Conosco poco dei suoi scritti e della sua storia. Ad esempio non sapevo che fosse di origini agiate, il che sembra una bella incongruenza. O forse, come San Francesco d’Assisi, proprio la ricchezza gli fece rivolgere lo sguardo verso i poveri. Mi è sempre piaciuta la sua frase “Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”. E l’ho interpretata come uno stimolo a studiare e imparare. Sono nipote e figlia di contadini, ma sono poi diventata una “Pierina”, pur rimanendo nella fascia dei poveri, che non comandano niente, ma almeno cercano di “difendersi”.
La mia scrittura è solo diletto, magari ogni tanto ci infilo qualcosa che possa far riflettere, ma dubito di riuscirci. 🙂
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Tranquilla: sparerebbe a palle incatenate anche a te. 😀
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“Per poi entrare a far parte del P.I.L. (Partito Italiano dei Laureati); quello che governava il Paese” del resto don Milani era vissuto in un periodo in cui erano ben pochi a potersi permettere di studiare e posso ben capire il suo punto di vista.
Purtroppo oggi mi sa che siamo agli antipodi, i laureati non governano più il paese, sono soprattutto i ciarlatani, non hanno neanche studiato e sudato per arrivare fin lì (ne abbiamo diversi esempi…), ma in fondo anche in questo caso serve la capacità di parlare anche a vanvera ma parlare.
Per tornare alle storie, secondo me è importante parlare dei poveri, oggi più che mai, proprio perché la maggior parte dell’informazione tende a oscurarli.
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Lui faceva quello che faceva perché l’abbandono scolastico era endemico in certe zone del Paese. E lui vedeva in questo una sconfitta di tutti.
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Non è stato uno dei miei riferimenti ma avrebbe potuto esserlo. Apprezzo gli uomini e le donne che si impegnano per migliorare le condizioni delle persone. Farlo con le parole e con le storie, come alcune delle tue, è semplicemente una scelta tattica: arrivare dove altrimenti non si potrebbe arrivare. Una grande e bellissima sfida. Buon lavoro, Marco
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Altrettanto, Elena!
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erano altri tempi quelli di don Milani che era in netto contrasto col resto del clero cattolico, che badava più a ingrassare che difendere gli ultimi
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Concordo.
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Non doveva essere un personaggio comodo, don Milani; ma del resto, avrebbe lasciato un segno in altro modo? Chi vive i propri ideali in maniera così netta mi fa sempre sentire in un punto indefinito tra invidia e sollievo. Non è cosa da tutti.
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Diciamo pure che era molto scomodo. Scomodissimo. Ma ne era fiero.
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