di Marco Freccero.
Pubblicato il 3 gennaio 2022.
Nelle mie riletture potevo farmi mancare “Cronaca di una morte annunciata”? No, naturalmente.
Lo scorso anno (nel mese di settembre) l’ho riletto dopo una pausa di almeno… Due decenni? O forse ancora di più, chissà.
Un breve romanzo (o un racconto lungo?), nel quale il narratore (amico del protagonista ammazzato), torna dopo decenni a indagare su quel fatto distante.
Perché ci sono troppe cose senza una spiegazione. E se alla fine della lettura qualcuno crede di trovarne anche una: non accadrà nulla del genere.
La scrittura di Garcia Marquez
Per prima cosa, quello che balza ai miei occhi è la straordinaria scrittura di Marquez. Inizi a leggere le prime righe e lui ti prende, ti conduce con sé come un treno a tutto vapore. Naturalmente chi legge non sa bene quale sia il percorso; ma si percepisce la mano sicura dell’autore e si affida a egli. Leggere è anche un atto di fede, e di fiducia che dir si voglia, in chi ha abbastanza presunzione per credere che manchi la sua voce, nella letteratura. Se poi ha talento in quantità ciclopiche (come Garcia Marquez), allora è una festa.
Fede nella parola.
Fiducia: in chi scrive, si capisce. Perché si spera che di quella semplice e delicata forma di espressione sia capace di farne l’uso migliore.
Ma la storia?
La storia
Per chi non ha ancora letto questo libro: Santiago Nasar viene assassinato dai fratelli Vicario perché secondo la loro sorella Angela, l’ha disonorata. I due si fanno vedere da tutti, e a tanti urlano il loro intento: ammazzarlo per riparare all’onore della sorella. Ma nessuno si muove, agisce o reagisce. Quando alla fine qualcuno ci prova, è ormai inutile. Tutto il meccanismo della morte si è messo in moto, e anche chi prova sul serio a salvare Santiago, commetterà errori piccoli, ma fatali.
Angela Vicario affermerà che è stato proprio lui, ma come si spiega l’atteggiamento tranquillo di Santiago? Col fatto che essendo una delle famiglie più in vista del paese, a lui tutto era consentito e perdonato? Ma perché, alla fine, quando scopre che lo cercano per ammazzarlo cade dalle nuvole? Non si capacita di quanto gli sta per accadere?
Finzione? Finzione portata a un livello sublime? E per quale ragione? Certo: gli viene offerto, alla fine, di prendere un fucile o di barricarsi in una casa; e lui invece esce. Di fatto esponendosi alla mattanza.
L’impressione è che Santiago Nasar non fosse il responsabile di nulla; ma il cuore del libro è altrove.
Il fato?
Perché tutti sanno che sta per succedere qualcosa di terribile e nessuno si assume la responsabilità di fermare il meccanismo che macellerà Santiago Nasar? (“Macellerà” nel vero senso della parola perché saranno usati coltelli per macellare i maiali).
Il narratore della storia, amico di Santiago, tenta di scovare una risposta, senza riuscirci. E si potrebbe liquidare la faccenda tirando in ballo il fato.
Credo che il cuore di questa storia non sia il fato. Ma qualcosa di più semplice e terribile.
Quando si vive all’interno di un sistema che fa della violenza, della sopraffazione il proprio unico credo, si vede ben poco. Anche quando ci sono delle avvisaglie che qualcosa di terribile sta per consumarsi, non si ha più il distacco, lo spirito per osservare, comprendere e infine agire. Si è come intorpiditi, atrofizzati.
Nel paese dove si svolge la storia un po’ tutti si conoscono. Si partecipa agli stessi riti, si rispettano le stesse tradizioni; ma non è una comunità civile. Dove con “civile” non bisogna intendere che riti e tradizioni sono rispettati. (Se Santiago Nasar viene assassinato, è proprio per rispettare la tradizione).
Ma “civile” dovrebbe significare attenzione per l’altro, la sua vita. Ma come si riesce a fare attenzione all’altro e alla sua vita, quando la cultura nella quale si è vissuti prevede appunto tutt’altro?
Non solo Santiago Nasar
Santiago Nasar non è esattamente una brava persona. Va a caccia di donne, di ragazzine. Non fa nulla di riprovevole agli occhi altrui, e nessuno in quella comunità lo condannerebbe mai poiché tutti sono d’accordo: si fa così.
I fratelli Vicario (che dopo aver scontato una breve pena per l’omicidio, tornano liberi) sono probabilmente come lui. Quando emerge il fatto hanno poche esitazioni: occorre lavare l’onta.
La madre di Angela Vicario, quando la figlia torna a casa accompagnata a piedi dal suo marito di 5 ore (la durata del matrimonio), la riempie di botte. In quel paese, nessuno ci troverebbe qualcosa di strano. Il più grande matrimonio del paese rovinato da quella sciagurata di figlia.
Tutti sono immersi, e cuociono, in un brodo culturale che sfarina il senso di responsabilità che dovrebbe legare gli uni agli altri. E se due tipi armati di coltelli urlano (lo fanno perché qualcuno li fermi) che ammazzeranno un uomo, si può star certi che nessuno muoverà un dito. O se lo farà, accadrà troppo tardi. Dicono quel che dicono per i postumi della sbronza. Ma questo semmai dovrebbe spingere qualcuno a stare allerta: da sbronzi si dicono delle cose, che spesso dopo si fanno. Invece, nulla.
Il fato è l’alibi che le persone usano quando hanno rinunciato alla loro dignità, al loro senso di responsabilità che dovrebbe legarle. Il romanzo non è una tragedia perché l’evento è inevitabile. Ma, proprio perché si potrebbe evitare, nessuno lo fa.
Per indifferenza, distrazione, o per chissà cos’altro, un po’ tutti quelli che potevano fermare quell’omicidio, non lo fa. L’alcalde sequestra i coltelli ai due fratelli, e li spedisce a casa. A casa si procureranno altri coltelli.
Anni dopo, succederà qualcosa di strano. Prima però che succeda, Angela Vicario inizia a scrivere a quello che era stato per poco tempo suo marito. Lentamente, e per anni, è divorata dalla passione. Finché (ecco che cosa accade) un giorno sulla soglia di casa compare, i capelli imbiancati e un po’ curvo, lui. Con le duemila lettere che lei gli aveva scritto ancora tutte sigillate. Bayardo San Roman.
Non è un lieto fine, proprio per nulla. Anzi, la scena finale vede proprio la morte di Santiago Nasar. È la fine naturale per una vicenda che, se si fosse svolta in modo differente, si poteva sul serio gridare al miracolo. ma il miracolo ha bisogno della partecipazione della gente. E in quel villaggio c’erano solo ombre un tempo esseri umani.
Grande autore Marquez. Ho letto altro di lui ma non quest’opera.
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Allora devi rimediare 😉
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rimedierò
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Mi sembra un romanzo difficile da leggere, ma forse sono io che sono piuttosto sensibile in questi tempi…
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No, non è difficile. Si legge che è un piacere.
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Non ricordo di aver letto ancora nulla di Marquez. Ho una copia mi pare di Cent’anni di solitudine, ma ancora non ne sento lo slancio. Forse mi conviene iniziare da questo, come antipasto? 🙂
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Sì, inizia da questo. Se poi l’appetito cresce… 😉
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