Tutta l’attualità del “Che fare?” di Ignazio Silone


 

 

di Marco Freccero.
Pubblicato il 10 gennaio 2022.

 

 

Avvicinarsi all’opera dello scrittore italiano Ignazio Silone (pseudonimo di Secondino Tranquilli), di questi tempi, pare essere un esercizio solo modestamente interessante.

Si può citare di certo il suo successo all’estero prima; e poi in Italia. 

Il suo riscrivere i romanzi (“Fontamara”; “Vino e pane; “Il seme sotto la neve”) anche per riadattarli al cambiamento di regime avvenuto in Italia, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Certo riferimenti, che avevano senso quando il conflitto era in corso, nel dopoguerra avevano perso significato e incisività.

La letteratura che resta

Ma solo dopo gli anni Sessanta la critica italiana inizierà una riflessione abbastanza serena robusta della sua opera, e del valore dei suoi libri. Il “fenomeno Silone” viene affrontato non da poche voci isolate, ma da un po’ tutti. È terminato il periodo di chi scriveva che il suo successo all’estero era dovuto alla ri-traduzione dei suoi libri. E così si consegnava la patente di incompetente e trafficone ad alcuni dei più importanti editori europei ed extraeuropei.

Leggendo per esempio “Fontamara”, oppure “Vino e pane”, si entra in contatto con un’Italia che non esiste più. Si sfogliano alcune pagine e si pensa: “Be’, ormai non siamo più così”. Il progresso, materiale e spirituale (?) sono tangibili, evidenti. Le opportunità per tutti (??) una realtà.

E la tentazione di considerare le sue opere una specie di lontano, anche se interessante, spaccato di un mondo svanito, è fortissima. Eppure le storie narrate da Ignazio Silone hanno ancora parecchio da raccontare. 

Perché la letteratura che resta, quella che rimane attraverso i decenni e poi i secoli, non si limita a illustrare le condizioni di vita di una società di cento anni fa. O di duecento.

Sempre, porta sul palco il dilemma dell’essere umano quando si trova a che fare con gli ingranaggi di un mondo che opprime; messi a punto non da una mano invisibile. 

Bensì da altri uomini.

Adeguarsi oppure combattere? E combattere per che cosa?

Romanzi come “Fontamara” oppure “Vino e pane” non sono mai una rappresentazione di come eravamo prima del boom economico degli anni Sessanta che ha stravolto il volto del Paese. Da miserabile e rurale a ricco e industriale. 

Semmai, sono la prova che si può tranquillamente passare dalla rassegnazione alla rassegnazione. Da una oppressione evidente, a una meno evidente ma ugualmente oppressione. E Silone benché consapevole, come tanti, che una scalcagnata democrazia fosse la miglior cosa rispetto a un regime totalitario, aveva anche sufficiente perspicacia per sapere che non è mai sufficiente la libertà di opinione per avere un’opinione libera dalla propaganda. O dal conformismo (figlio della propaganda).

Quello che unisce

Se Berardo Viola (il cafone protagonista di Fontamara) con la propria morte spinge i suoi rassegnati simili a chiedersi “Che fare?”; anche Pietro Spina, tornando tra i luoghi dell’infanzia travestito da prete per sfuggire all’arresto della milizia fascista, sente la necessità di abbandonare studi e riflessioni, per stare in mezzo a un’umanità calpestata. Certo; fuggirà sui monti. 

Eppure da una parte c’è la morte di Murica (terribile, eppure capace di abbracciare e inghiottire il tradimento di cui si era macchiato); dall’altra Cristina. La giovane che vorrebbe farsi suora, e che alla fine corre sulla montagna per soccorrere Pietro, ma lì troverà la morte.

Ciò che unisce queste persone non è la ribellione contro il potere tirannico, o la volontà di resistere e testimoniare che contro l’oppressione occorre balzare in piedi. 

C’è anche questo, è ovvio.

Soprattutto emerge, all’orizzonte della vita di questi uomini e donne la consapevolezza (dolorosa: perché non conduce affatto alla pace o alla serenità) che esiste un legame che unisce. Che ogni potere, per prima cosa, bada a rendere gli uomini soli, slegati gli uni dagli altri. Col randello o col benessere poco importa. 

Ma quando alla fine dalla bocca di questi esseri soli e sazi (o affamati e succubi. Dipende) esce “E a me che importa di quello lì” dove per “quello lì” ci si riferisce all’altro; la vittoria è quasi conseguita.

Ammirato da tre Nobel della letteratura

Eppure nei romanzi di Ignazio Silone c’è parecchio di più. 

Non sono importanti perché lo scrittore abruzzese indagava sul ruolo dell’uomo negli ingranaggi del mondo. La letteratura che fosse solo denuncia dell’oppressione sarebbe in fondo non molto distante da un articolo di giornale. Inevitabile e necessaria; eppure distante dal suo scopo.

Se Silone ha continuato a scrivere, come tanti altri, era perché prima degli ingranaggi del mondo (messi in opera da altri uomini) c’era e resta sempre lui. 

L’uomo.

Imprevedibile. La mina vagante dell’universo. Se la sua opera è stata anche descrivere come eravamo, e come abbiamo perso l’occasione (forse) di diventare quello che dobbiamo, quasi certamente nei suoi libri c’è anche l’indagine sul mistero dell’uomo. 

Perché qualcuno, a un certo punto, tradisce? Si separa dagli altri e ordisce i meccanismi che opprimono?

Questo scrittore ammirato da tre premi Nobel della letteratura; che a Zurigo negli anni dell’esilio ebbe modo di entrare in contatto con personalità che lo aiutarono ad avere uno sguardo più acuto sui propri simili: credo che riflettesse soprattutto su questo tema. Da quando, in Abruzzo, vide un conoscente che tra le macerie del dopo terremoto derubò i morti.

La parola è una sorta di sonda che si cala nell’abisso di ogni uomo. Per capire? Per spiegare? 

Ma può la semplice parola, anche se efficace e precisa, riuscire a consegnare a chi legge (ma anche a chi scrive. È da lui che tutto inizia) una qualche pallida ombra di spiegazione? 

Probabilmente no.

Ma questo non può indurre alla disperazione. Disperazione è avvicinarsi all’abisso e dire che non c’è nulla da capire o da spiegare: perché è così.

Calarsi con la parola in quell’abisso, credere con ostinazione nella piccola forza della parola anche se il successo non solo non c’è, ma non potrà mai esserci, è la sola follia che merita di essere praticata.  

Eppure…

Eppure Ignazio Silone ha fatto anche altro. Credo di averlo già scritto su queste pagine. La sua scrittura. 

Riuscire con quella scrittura così sobria ad affrontare temi così importanti, alti: non ci riuscirebbero tutti. Perché tutti (o tanti), sono capaci di scrivere di cose elevate. Di dilemmi; di speranza. Ma annoiando, oppure indicendo all’abbandono della lettura.

Ma farlo con una grammatica che scaturisce da riflessione e tensione; da silenzi e sguardi che rubano la verità, la custodiscono e poi la condividono: non è da tutti.

Ci vuole un grande scrittore. Come Ignazio Silone.

7 commenti

  1. Ho letto anche gli altri tuoi post su Ignazio Silone con interesse. Che solo tu riesci a farmi venire voglia di leggere certi autori. Secondo te da quale romanzo dovrei partire? Ho sentito parlare bene anche di Il segreto di Luca, da cui credo abbiano tratto un film o una serie addirittura.

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