La lettura è un’avventura


 

di Marco Freccero.
Pubblicato il 24 gennaio 2022

 

 

 

Tempo fa ho letto una (corposa) biografia dedicata al professor Tolkien. Esatto, quello del Signore degli Anelli. È a cura di Raymond Edwards ed è di quasi 400 pagine. Rigorosamente cartacee.

Ed essendo una biografia si parla anche delle sue opere. In primis de “Lo hobbit”. Ma non solo.

In un buco del terreno

Come si sa, l’incipit nacque “per caso”. Per guadagnare un po’ di soldi extra, il professor Tolkien correggeva anche compiti di altre scuole. Un giorno si trovò con un foglio bianco e, forse stanco ma ammaliato da quello spazio bianco che ai suoi occhi poteva sembrare una via di fuga dai troppi impegni, scrisse:

“In un buco del terreno viveva uno hobbit” 

Che è l’incipit esatto di quel libro. Il punto è che lui non sapeva assolutamente cosa fosse uno hobbit. Né è ben chiaro come questa parola sia saltata fuori, e da che cosa (Tolkien sin da bambino inventava linguaggi).

Hai presente quando in giro si legge che prima di iniziare la stesura di un romanzo devi avere tutto ben chiaro?

D’accordo. 

Diciamo che una illuminazione capita a tutti, ma che poi ti devi mettere di buona lena a lavorare, e a quella prima illuminazione devi per forza di cose fornire ben altro. Carne e ossa, nervi e muscoli.

Il che è vero. 

A quel tempo il professor Tolkien non immaginava certo di voler scrivere una storia sugli hobbit, anche perché non aveva proprio idea di chi o cosa fossero. Essendo un professore a Oxford doveva innanzitutto preparare le lezioni (un impegno non da poco, ben illustrato nella biografia). Ma soprattutto il suo scopo per quello di pubblicare studi sulla filologia. Cosa che farà, ma non nella quantità che forse avrebbe dovuto (“Beowulf” e il suo studio a esso dedicato è diventato un classico ancora oggi letto e studiato). 

L’aspetto interessante è ciò che disse poi il figlio Christopher a proposito di quel libro. Quando Lo Hobbit uscì nel 1937 non era assolutamente parte di quel progetto enorme (chiamato il legendarium) di cui entrerà a far parte assieme a “Il Signore degli Anelli”. Legendarium che si conoscerà solo dopo la morte di Tolkien, e che ha per titolo “Il Silmarillion”. In seguito Tolkien tornò su “Lo Hobbit” e lo riprese, lo modificò. Per renderlo più omogeneo rispetto a “Il Signore degli Anelli”.

Piccola parentesi. Quando dopo oltre dodici anni di scrittura uscì “Il Signore degli Anelli”, molti colleghi si sentirono offesi. 

Tempo rubato agli studi

“Ma come, un professore che invece di pubblicare studi sull’inglese medievale scriveva di orchi e nani? È uno scherzo?”

E avevano ragione. 

Dodici anni dedicati alla scrittura del Signore degli Anelli vuol dire (naturalmente) ridurre la possibilità di pubblicare saggi proprio sull’inglese medievale. In effetti la produzione accademica del professor Tolkien non brilla per quantità. È di qualità, e su questo pochi possono dissentire. Di certo avrebbe potuto pubblicare di più (studi accademici) scrivendo di meno (non scrivendo “Il Silmarillion” e appunto “Il Signore degli Anelli”). 

Questa scelta ha poi avuto almeno un altro effetto collaterale.

Già negli anni Cinquanta lo studio della filologia viene attaccato; a Oxford e non solo. Si tratta di una materia difficile, e che non offre molte opportunità (la Ford o la Fiat, o la Ferrero, non è che abbiano tutto questo bisogno di filologi, giusto?). Sia gli studenti, che il corpo insegnante, ne chiedono un ridimensionamento. Che avverrà puntualmente.

Forse con più pubblicazioni accademiche da parte del professor Tolkien (era pignolo, scrupoloso), la resa dei conti tra amici e nemici della filologia non ci sarebbe stata. O forse ci sarebbe stata comunque, ma in là nel tempo. Perché sarebbe stato possibile avere più studenti di questa materia che in seguito sarebbero divenuti professori, e questo avrebbe modificato almeno un poco il destino della filologia. 

Ma non era esattamente questo l’argomento che volevo trattare.

Costruire una storia

Il punto è che puoi anche partire da una frase per costruire una storia, e mentre la scrivi non sai bene che cosa sia e dove andrai a finire. Ed è esattamente quello che è accaduto con Il Signore degli Anelli. Doveva essere il secondo Hobbit, ma mentre procedeva il professore si rese ben conto che era tutt’altro. 

Più cupo.

Dovette anche rimaneggiare Lo Hobbit per far sì che quello fosse allineato con questo. Ma non sapeva bene come definirlo, come presentarlo. E in fondo non lo fece mai: ci pensò l’editore, e la pirateria negli Stati Uniti a renderlo un fenomeno mondiale che dura ancora oggi.

La sola cosa che ho davvero imparato in tutti questi anni di scrittura, è che una storia ha bisogno di riflessione. Siccome non è soltanto un elenco di azioni o eventi, occorre dare a essa un qualcosa in più. Nessuno ha davvero voglia di leggere semplicemente dei fatti. Per quello mi pare esistano ancora i giornali.

Probabilmente si racconta perché non si è capito qualcosa. O perché c’è un dubbio in quanto accaduto. O anche: perché si sa qualcosa. In fondo un libro è una sfida. Forse persino un atto di guerra.

“Delitto e castigo” è un atto di guerra esattamente come “Vita e destino”. Ma lo è anche”Bartebly lo scrivano”. Persino “I promessi sposi” sono una sfida, un atto di guerra. 

Mi rendo conto: sto esagerando. Mi sono montato la testa, come si dice. Eppure quei libri che entrano nella storia hanno sempre in sé una carica… Scoppiettante. Capace di creare rumore. 

La forza di un romanzo come “Madame Bovary” non è solo nell’aver rappresentato una donna che all’improvviso scopre che (forse) potrebbe avere un’altra vita.

Ma che il mondo attorno a quella donna non si fosse ancora reso conto che una donna non è un soprammobile parlante. Quando Flaubert lo scrive, probabilmente non ne era nemmeno a conoscenza. Scrive a sua insaputa. Succede spesso che siano altri, e non l’autore, a capire il senso di una storia. Anche “Il conte di Montecristo”, scritto da Dumas per fare soldi, essenzialmente, è un romanzo che ha da dire altro. La forza del denaro che si crede possa essere indirizzato verso qualcosa di nobile (fare giustizia, perché il mondo non sa farla, e chiama i tentativi del singolo “vendetta”), alla lunga rischia davvero di scardinare ogni cosa. Di travolgere chi pensava di avere le redini in mano. 

Insomma. L’avventura della lettura è tale proprio perché non sai mai dove ti porta. E non lo sa nemmeno chi scrive, se è per questo.

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