di Marco Freccero. Pubblicato l’11 aprile 2022.
Dopo molti anni (e ne sono trascorsi davvero tanti) ho ripreso a leggere lo scrittore Isaac Bashevis Singer, Nobel della letteratura negli anni Settanta. Scriveva in yiddish, una lingua che parlavano gli ebrei dell’Est Europa. Lui stesso, se non ricordo male, scriveva le sue opere in yiddish. E sino a qualche anno fa (ma forse erano gli anni Novanta?) a New York si stampava ancora un giornale in yiddish. Ma forse è stato chiuso.
Non starò qui a raccontare la storia, perché lo scopo di questo articolo non è affatto scrivere una recensione. Diciamo solo che è un ottimo libro che solo di recente Adelphi ha tradotto nel nostro Paese.
Quello che mi è parso interessante, e che mi è piaciuto davvero tanto, non è tanto la storia, che ruota attorno a Keyla la rossa (il titolo del libro, appunto).
Ma quel mondo che non c’è più.
Un mondo che non c’è più
Parliamo della Polonia, di Varsavia che ai tempi della storia (inizio del Novecento, prima della Rivoluzione d’Ottobre e della Prima Guerra Mondiale) era governata dallo zar. C’era il ghetto in quella città, quel ghetto che anni dopo, durante la Seconda Guerra Mondiale scatenò una fiera resistenza contro i nazisti che intendevano annientare la presenza degli ebrei non solo lì; ma in tutta Europa.
Sia chiaro questo: Singer non edulcora nulla, non rende poetico niente. Keyla è una prostituta, suo marito un ladro che è stato in prigione, ed essi si muovono in mezzo a una umanità di pari valore. E si comprende perfettamente da certi dettagli che Singer pescò nei suoi ricordi, o dai racconti di gente che là era vissuta, per confezionare questo romanzo.
Tutto è stato spazzato via.
Mi sono trovato spesso a riflettere, mentre leggevo le pagine digitali dell’ebook, sul sentimento di melanconia che suscitavano. La dignità di questi personaggi (ebbene sì io, come si sa, credo nella dignità dei personaggi) che alla dignità non pensavano affatto: che fosse la loro o degli altri, impegnati com’erano a stare fuori dalla galera, a non prendersi una coltellata, a non fare la fame. Sognando il colpo che finalmente li avrebbe messi a posto (ma per quanto tempo?), oppure la “Nazione dorata” (vale a dire gli Stati Uniti d’America).
Accanto a questa umanità, ecco quella dei rabbini, delle donne, dei monelli di strada, dei commercianti che giorno dopo giorno vivevano, sospiravano, odiavano o amavano. E alla fine mi sono domandato: ma al di là dell’indubbio valore di una storia del genere; oltre al documento, diciamo così, che questa storia rappresenta. Che cosa racchiude davvero una storia? (Non dico “letteratura” perché è un termine che non vuol dire assolutamente nulla. È un’etichetta come “Salumi”; “Latticini”; “Cibo per cani”).
Una storia
Una storia non è certo un insieme di episodi, di fatti, di dialoghi o di personaggi; anche se è bene (non indispensabile) che questi elementi in qualche modo ci siano. Anche un articolo di giornale è qualcosa che gli assomiglia, e infatti molti giornalisti sono romanzieri. Il fratello di Isaac, vale a dire Israel, era appunto giornalista, e pure lui fu un grande scrittore come la sorella Esther.
Forse è il supporto del libro che rende una storia “grande”, mentre se è su un giornale è solo un articolo?
Mi rendo conto che per molti questa è una questione di lana caprina. Perché perdere tempo con simili quisquilie, quando dovrei, come autore indipendente, badare a ben altro (tranquilli: la terza parte di “Stella Nera” procede. Dovrebbe uscire a dicembre 2022).
Ma non è per me una questione di lana caprina. Lo era forse per Tolstoj o Balzac perché non avevano la concorrenza di serie televisive, videogiochi, cinema, televisione. E quando pubblicavano un romanzo il pubblico (una minoranza) correva a comprare. Non avevano alcuna concorrenza.
Ma adesso le cose sono cambiate. Quindi, sotto la luce (diciamo così) di “Keyla la rossa”, possiamo provare a riflettere su che cosa è una storia? Ha senso farlo?
Che scopo ha una storia nel XXI secolo: testimonianza? (Mmmm).
Documento? (Mmmm).
Queste due cose, più altre? E queste “altre” che cosa sarebbero? E se (e torniamo all’inizio o quasi) non ci fosse alcun senso, oppure c’è: ma perché rompersi la testa con queste domande? Scrivi e basta, asino di un ligure!
E poi ebbi l’illuminazione. Be’ quasi…
Con tutti i rischi che ci sono nel definire qualcosa (perché tanto ci sarà sempre qualcuno che non sarà d’accordo), la storia dovrebbe essere interessante, ma credo che questa qualità (Henry James se non sbaglio afferma che a una storia dobbiamo chiedere che sia almeno interessante) ormai non sia più sufficiente. Perché tanto (troppo?) rischia di essere “interessante”.
Il silenzio
Paradossalmente, una storia deve fare spazio al silenzio. Non mi riferisco al fatto che attorno a te ci deve essere silenzio, altrimenti non capisci quello che leggi.
No.
Racconti una storia, ma quello che conta è appunto il silenzio; no, non il non detto. Proprio il silenzio. Dal quale essa scaturisce, e che la parola comunque non riuscirà mai a comprendere completamente.
Sono matto, vero?
Che vuol dire tutto questo? Che la parola è inutile, e che conta solo il silenzio? Probabilmente no.
Credo che un autore sia uno che dopo molto silenzio, cerca le giuste parole per dire qualcosa. In fondo, chi diavolo sapeva qualcosa di via Krochmalna, a Varsavia? (A quanto ne so, non esiste più). Solo i giornali, e nemmeno tutti.
Poi è arrivato Isaac. C’era silenzio in via Krochmalna benché brulicasse di vita. Lui (e non solo lui) ha iniziato a usare le giuste parole per incorniciare quel silenzio, non per romperlo.
Ma quel silenzio ha prodotto questa storia e molte altre. A ben vedere tutte le storie, dei grandi come dei piccoli autori nascono sempre perché prima c’’è silenzio. Ma non si tratta di un silenzio sterile, di qualcosa di cui liberarsi perché fastidioso, nocivo.
Gli scrittori di solito scrivono in silenzio (anche se non sono pochi quelli che riescono a farla al bar, per esempio). Ma anche in questo caso quella storia scritta su un taccuino dentro un fumoso e rumoroso caffè nasce solo perché prima c’era un silenzio. È lui che è il vero padre di quella storia.
Del perché, o del come, un autore riesca a estrarre “Keyla la rossa” tanto per dire il titolo di un libro, io proprio non lo so. È una faccenda piena di mistero la scrittura. Forse non vale nemmeno la pena indagare troppo.
Meglio scrivere.
Di Isaac Singer, confermo che tutte le sue opere in originale sono in yddish e tradatte poi in inglese, ho letto negli anni settanta, mezzo secolo fa, tre opere La famiglia Moskat, Il mago di Lublimo e la fortezza. Tre opere diverse come contenuto ma che trattano l’ambiente che lo scrittore conosce meglio. il mondo deglie brei.
Ricordi molto sbiaditi ma ammetto che la sua scrittura non è facile da digerire.
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Io l’ho sempre trovato molto bravo (ma forse il fratello era più bravo).
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ricordi sbiaditi di lui e del fratello
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Allora occorre rimediare. Rileggendoli entrambi 😉
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lo farò. Non so quando visto l’arretrato
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Mi piace molto questo tuo concetto del silenzio, è vero esiste sempre un lungo silenzio prima che nasca una storia
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Chissà perché ci sono due commenti. WordPress inizia a dare di matto.
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Mi piace molto questo tuo concetto del silenzio, è vero esiste sempre un lungo silenzio prima che nasca una storia
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