Scrivere non significa ricordare – L’esempio di Stephan Zweig


 

 

di Marco Freccero Pubblicato il 18 luglio 2022.

 

 

In tanti credono che scrivere non sia altro che ricordare. E siccome hanno molti ricordi (chi è che non ne ha?) sono persuasi che raccontare storie voglia dire esattamente quello: mettere su carta i propri ricordi.

Se qualcuno obietta a questo ragionamento chiamano a loro difesa Marcel Proust e la sua opera “Alla ricerca del tempo perduto”, e affermano, sicurissimi: “Lui è uno scrittore che ricorda tutto”.

Peccato che sbaglino.
Tutto.

C’era una volta

Io non ho mai letto Marcel Proust (ma tu hai mai letto, che so: Bruce Marshall? Werner Bergengruen? Oppure George Mackay Brown?). Però di recente ho letto in edizione digitale “Il mondo di ieri” di Stefan Zweig. Austriaco, amico di Freud, Richard Strauss, di Benedetto Croce, è stato uno degli intellettuali di inizio Novecento più celebri non solo nel suo Paese; ma un po’ ovunque. Se scrisse a Benito Mussolini per chiedergli un favore (non per sé), e gli fu prontamente accordato: questo spiega la caratura dell’uomo. 

Il libro che ho letto un po’ di tempo fa, a prima vista appare nient’altro che un insieme di ricordi. Lui descrive l’impero austro-ungarico (già: agli inizi del Novecento c’erano ancora gli imperi in Europa) prima di essere spazzato via dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Una monarchia vecchia di secoli, sempre uguale a se stessa: coi suoi riti, le sue cerimonie. Tutto doveva restare uguale.

I giovani? Un pericolo

Interessante il capitolo dedicato alla scuola. L’istruzione ai tempi dell’impero doveva avere come obiettivo quello di “spegnere” l’energia dei giovani. Non solo tra alunni e insegnante non c’era nulla: chi insegnava doveva solo dare i voti. 

Chi studiava doveva solo cercare di uscire dalla scuola con dei buoni voti.

Zweig illustra come la scuola avesse l’obiettivo di tarpare le ali ai giovani. Doveva difendere l’impero dall’energia dei giovani, visti come una minaccia. Con la loro energia, la curiosità, il desiderio di nuovo, di capire e di esplorare fuori dai sentieri battuti, i giovani rappresentavano: esatto, una minaccia. Un pericolo dal quale guardarsi.

Ma i giovani non si facevano imprigionare. Amavano la poesia, l’arte in ogni forma. Anzi, probabilmente era così amata da Zweig e dai suoi amici proprio perché era il territorio dove le restrizioni e gli obblighi di quella società cedevano. Non riuscivano nei loro intenti, perché la poesia, la musica, erano troppo potenti.

Nell’impero austro-ungarico era praticamente impossibile che un giovane, con meno di trent’anni, potesse aspirare a qualunque incarico. Non era sufficientemente posato. 

I giovani si facevano crescere la barba per apparire più vecchi. Mettevano su chili per dare impressione di essersi lasciati alle spalle le frivolezze della gioventù.

Non solo ricordi

C’è molto altro ancora in questo libro di Zweig. E come si può intuire facilmente, è basato sui suoi ricordi. Lui c’era, ha vissuto in quegli anni. Ha visto da vicino il crollo della monarchia viennese, e poi la nascita del nazismo (quando acquisterà una villetta nei pressi di Salisburgo, avrà come panorama il Salzberg e lì come vicino, di fronte, Adolf Hitler).

Concluderà la sua vita in Brasile, suicidandosi assieme alla seconda moglie, nel 1942. Il crollo dell’Europa, la persecuzione (era ebreo, i suoi libri furono tra i primi a essere requisiti e bruciati), lo convinsero che il Vecchio Continente si fosse suicidato, e che non sarebbe mai più risorto. 

Ma in quest’opera lui non si limitava affatto a ricordare. Che pescasse dalla propria memoria, che ricordasse volti, odori, ambienti, sensazioni è del tutto ovvio.

Ma da qui ad affermare che ha scritto quello che ha ricordato, è un errore grossolano.

Innanzitutto perché non ha ricordato tutto. Non ci vuole molto per comprenderlo. 

Chi scrive compie sempre delle scelte: questo sì, questo no. E lo fa non solo perché la parola lo impone per sua stessa natura (quando si scrive non si può affatto contare sulla gestualità, sul tono della voce, sulla mimica del volto); e questo vuol dire appunto scendere a compromessi con uno strumento (la parola) che è meno “flessibile” rispetto alla voce. 

Ma chi racconta storie sa che non deve annoiare. Occorre essere interessanti, vale a dire spingere il lettore a girare la pagina. E sia chiaro questo: il ricordo alla lunga annoia. O meglio: il racconto parlato può essere vivificato proprio da quell’insieme di elementi che ho accennato prima (la mimica, il tono della voce, eccetera eccetera). Benché molti ricordi sarebbe decisamente meglio se restassero tali (chiusi cioè nella testa della persona…).

Ma sulla pagina che fai: ci metti le emoticon?

La parola a Stefan Zweig

C’è ancora da aggiungere un elemento mica da poco. 

La parola, proprio per i “limiti” che conserva, cambia le cose. Le trasforma, forse non in maniera radicale, ma di sicuro interviene pesantemente proprio sul ricordo. Non comprendere questo dettaglio, che dettaglio non è affatto, significa non aver compreso la differenza che esiste tra parola scritta, e oralità.

Tra un ricordo narrato, e una storia su pagina che quel ricordo tiene ben saldo in pugno; ma non se ne lascia dominare. 

All’inizio del suo libro Zweig scrive:

“(…) Ciononostante, non desidero affatto mettermi alla ribalta e se lo faccio è soltanto come un conferenziere che commenti di fronte al suo pubblico una serie di diapositive: il periodo storico offre le immagini, a me il compito di aggiungervi le didascalie. Non racconterò soltanto il mio destino, ma quello di un’intera generazione”.

Non “ricorderò”; ma “racconterò”. Stefan Zweig prima di procedere con la sua storia dichiara all’istante quello che ha fatto: ha raccontato. Vale a dire ha costruito una narrazione che ha pescato nei ricordi; ma per offrire ben altro. 

Anche Herman Melville ha pescato nei ricordi per scrivere “Moby Dick”. Lui si è per davvero imbarcato sulle baleniere, ha cacciato le balene. Ma il suo romanzo più famoso di certo non è il ricordo di una caccia alla balena bianca. Dentro c’è molto di più.

Qui torniamo a un mio vecchio pallino: hai presente quando in passato ho scritto su questo blog che la realtà non è uno schermo piatto del televisore, ma decisamente più complicata? Ecco, appunto. I ricordi sono come uno schermo piatto. Li possiamo usare per i nostri scopi, ma non possiamo limitarci a essi, o il risultato non potrà che essere mediocre. Non possiamo rischiare di annoiare il lettore.

Scrivere, non ricordare. Meglio tenerlo a mente.

20 commenti

  1. Che bella riflessione Marco, invidio questa tua freschezza, io sono decisamente bollita! Scrivere al di là dei ricordi. C’è forse altro? La nostra vita non è un eterno ricordo di un fatto visto o immaginato, fosse anche relativo a un secondo fa?

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  2. Ho scoperto Stefan Zweig quando ho visto il film “Grand Budapest Hotel”, bellissimo. E andando alla ricerca delle origini della sceneggiatura, ho letto un’intervista del regista Wes Anderson dove spiega che c’è proprio Zweig dietro a quella trama, un po’ dal libro “Il mondo di ieri” e da “Estasi di libertà”. Li ho in elenco da allora, e ancora non mi decido, anche se partirei dal secondo, nonostante sia incompiuto…
    Sulla scrittura, raramente attingo alla mia vita e ai miei ricordi, sai che noia e che barba! L’ho spiegato varie volte, per me scrivere è immaginare altro, lontano dalla mia quotidianità, perché proprio lì sta il mio divertimento. Poi se qualcuno vuole per forza vederci l’autobiografia, eh, affari suoi. 😀

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