di Marco Freccero. Pubblicato il 12 dicembre 2022.
Qualche mese fa, verso settembre, ho letto la versione cartacea del libro “Tolstoj” di Pietro Citati (editore Adelphi). In uno dei capitoli si fa accenno alla scuola che il conte fondò nella sua tenuta di Jasnaja Poljana (dove fece arrivare anche delle piante di mele dal Sud Tirolo, che a quei tempi faceva parte dell’impero austro-ungarico, mentre ora è Italia), e dedicata ad accogliere i figli dei contadini che per un po’ ebbero l’occasione di imparare a leggere e scrivere.
Vas’ka Morozov
Perché per un po’? Perché a un certo punto Tolstoj sembrò stancarsene, e la affidò a dei maestri pieni di buone intenzioni; ma non avevano affatto il suo carisma che conquistava (o stregava?) i bambini. Quindi alla fine chiuse.
Ma quello che mi ha colpito è stato la figura di un bambino, Vas’ka Morozov, il più intelligente di quei bambini; e come andò la sua vita “dopo”. Pietro Citati, dopo cinquant’anni da quell’incontro con Tolstoj nella scuola, ce lo presenta ormai vecchio, che fa il cocchiere, incatenato come un galeotto a una robusta catena. Si capisce al volo che le cose non gli sono affatto andate bene, e non poteva certo essere diverso l’esito. Parliamo della Russia zarista, e anche se il “sogno americano” è più propaganda che realtà, era una nazione dove c’erano ben poche possibilità di progredire, di migliorarsi.
Quei giorni, quando era un bambino, sono stati per lui lo zenit. Il punto più bello e luminoso di tutta la sua vita, poi precipitata nella mediocrità, nella tristezza, nel duro lavoro e forse nella disperazione. E considerando la sua vita fallita, tornava coi ricordi a quegli anni lontani, alla scuola di Jasnaja Poljana. Il ricordo forte e limpido di Tolstoj lo risolleva dal rimpianto, dal rimirare la sua vita che si stava concludendo nel fallimento più totale. Sentiva e vedeva ancora quei giorni di luce, forse pieni di una speranza che non ha mai compreso, e che non è nemmeno riuscito a trasformare in realtà.
Non di rado nella gioventù (chi a dieci anni, come Vas’ka; chi dopo, ma pur sempre entro gli anni della giovinezza, della gioventù) capita di scorgere, o di gustare, qualcosa che ci sorprende, ci stupisce e ci abbaglia. Pensiamo seriamente che la nostra vita, e la vita di tutti, in generale, dovrebbe essere esattamente in quel modo, dovrebbe contenere quella pienezza. Poi, quasi d’un colpo, tutto cambia.
Decisioni sbagliate? Poco coraggio? O coraggio per cose che non lo meritano affatto? Difficile rispondere.
Come se arrivasse un’eclisse, si spegne ogni cosa; ma è un’eclissi che dura per sempre. Eppure quella luce si è incisa in noi, come una cicatrice, e come una cicatrice è lì; a volte fa male, ma non possiamo fare a meno di considerarla. Proprio perché fa male.
Ma probabilmente non è di questo che desidero parlare.
Lev Tolstoj
È sempre dannatamente interessante cercare di accostarsi a una figura come Tolstoj, e farlo grazie alla “mediazione” di Citati è di una gradevolezza senza pari. Si rimane affascinati e anche un po’ perplessi (o turbati?) da un uomo che per tutta la vita ha cercato un senso, salvo poi scoprire che non ce n’era alcuno. O se c’era, era qualcosa che non gli dava alcuna serenità. Ecco il perché della fuga finale. E forse questo è accaduto perché anche lui ha sprecato certe occasioni benché fosse un uomo che qualche possibilità, anche finanziaria, ce l’aveva eccome. Ma stare qui a scervellarsi non servirebbe a molto.
Vivere con Tolstoj non doveva essere una pacchia. A quanto ci riferisce Citati, a tavola se ne stava silenzioso, a riflettere sulle sue storie, senza mai curarsi dei figli. Con la moglie non passeggiava mai, perché preferiva farlo da solo, per riflettere o sulle sue storie; oppure sulle sue teorie filosofiche, religiose, che alla fine lo portarono non solo a scontrarsi con la Chiesa ortodossa (fu scomunicato). Ma a sostituire Cristo con se stesso. A un certo punto inizia per davvero a considerarsi Gesù Cristo, ad applicare a sé le frasi che diceva, a considerarsi il quinto evangelista, l’unico che aveva scoperto la “verità”. Non esistono dogmi, Chiesa, gerarchia, ma nemmeno fede e probabilmente neppure Gesù Cristo. C’è solo Tolstoj, che ha capito tutto; solo che alla fine di questo percorso pervaso di una furia demolitrice sorprendente, da cui non si salvano nemmeno le sue opere più celebri, si rende conto che la situazione è ben lontana dall’essere chiara e definitiva.
Uguale agli altri?
Chissà se ha mai pensato, Tolstoj, ai suoi allievi. A Vas’ka per esempio. A come quell’uomo vecchio e rassegnato accarezzava il dolce ricordo di quel Tolstoj giovane, pieno di fiducia, vicinissimo a Rousseau, che raccontava storie ai figli dei contadini, leggeva, li conduceva nel bosco. Per poi mollarli quasi fossero diventati un gioco che non lo interessava più. Le occasioni perse, o sprecate, sono anche quelle che abbiamo lasciato cadere per i motivi più differenti, magari pure sensati; sul momento. Ma per quanto riguarda Tolstoj, la mia idea è che abbia usato la sua tenuta di Jasnaja Poljana per stare lontano dal mondo. Ci si è rinchiuso, di fatto. Ecco forse l’occasione bruciata di Tolstoj. Se fosse andato sino in fondo ci sarebbe stata un’altra storia.
Se abbandona la scuola lo fa per separarsi dagli altri, per tracciare tra sé e il resto del mondo un solco che si farà sempre più profondo e che coinvolgerà anche la sua famiglia, sua moglie.
Quasi che avesse compreso che quel mondo contenesse qualcosa che minacciava il suo ruolo? Il suo status? Ecco perché diventa una specie di profeta, con alcune intuizioni anche geniali; ma con, in fondo, uno sguardo cupo e pessimista su se stesso e sugli altri. Forse aveva bisogno di non avere fiducia negli altri per poter recitare il ruolo del profeta, dell’uomo che ha capito e ha scoperto tutto. Leggeva Rousseau, ma non poteva credere sul serio di essere uguale agli altri. Perché non lo poteva essere; e perché non voleva esserlo. Se scrivi “Guerra e pace”, come fai a essere o considerarti uguale agli altri? Se invece di goderti quel successo colossale riesci a scrivere una storia spettacolare come “Anna Karenina”: davvero puoi stare in mezzo ai contadini? Non lui, non Tolstoj. Ecco perché anni dopo guardava con orrore a quei suoi libri: perché gli ricordavano in modo eclatante che lui NON era affatto come gli altri. E non gli dispiaceva affatto, anche se questo era un pensiero che non osava ammettere.
Predicava l’uguaglianza con sincerità “in quel momento”. Salvo poi ritirarsi nel suo cantuccio dove ad accoglierlo c’era il conte. La sua fuga, è stata la fuga di un conte, un gesto eclatante, che ha fatto parlare la Russia e il mondo intero e che può permettersi solo uno come lui, del suo rango.
I Vas’ka Morozov, no.
Come è noto non amo molto la letteratura russa ma questo volume di Citati mi stuzzica perché leggere le storie o la storia vista dall’esterno mi è sempre piaciuto.
Post completo e interessante.
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È un buon libro. Poi alla fine leggerai TUTTO di Tolstoj 😉
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Dubito che al termine mi sciropperò tutto Tolstoj
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“Non doveva essere facile vivere con Tolstoj”, mi sono sempre chiesta perché certi scrittori famosi fossero più “grandi” visti da lontano, mentre con le loro famiglie non erano affatto amabili, questa riflessione nasce non solo da Tolstoj ma anche da altre vite di scrittori che mi è capitato di conoscere (sempre attraverso articoli o letture varie, quindi è una pretesa molto vaga).
Forse però il giovane contadino, allievo di Tolstoj, in America sarebbe diventato un premio Pulitzer…chissà
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In America? Mmmm. Non so. Il sogno americano è per pochi.
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“Non doveva essere facile vivere con Tolstoj”, mi sono sempre chiesta perché certi scrittori famosi fossero più “grandi” visti da lontano, mentre con le loro famiglie non erano affatto amabili, questa riflessione nasce non solo da Tolstoj ma anche da altre vite di scrittori che mi è capitato di conoscere (sempre attraverso articoli o letture varie, quindi è una pretesa molto vaga).
Forse però il giovane contadino, allievo di Tolstoj, in America sarebbe diventato un premio Pulitzer…chissà
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