di Marco Freccero. Pubblicato il 27 febbraio 2023.
Un po’ di tempo fa ho letto, anzi riletto, “Note invernali su impressioni estive” di Fedor Dostoevskij. Se qualcuno desidera leggerlo, l’editore è Feltrinelli.
Si tratta delle sue note a proposito del primo viaggio che fece in Europa, una volta tornato dalla Siberia. Non fu l’unico.
Spesso si ripete che il viaggio apre la mente. Che non c’è nulla di meglio del viaggio per avere una mente aperta. Ecco: basta leggere questo librino per capire che non funziona affatto così.
Per fortuna.
Dostoevskij demolisce la Francia
Perché se funzionasse davvero così probabilmente non avremmo mai avuto Dostoevskij.
Il nostro Fedor quando decide di venire da solo in Europa (lascia la prima moglie in Russia poiché il figlio di lei deve prepararsi per un esame), non lo fa affatto per “essere ricettivo”. Per lasciarsi influenzare dal progresso dell’Europa. Egli è già Dostoevskij in tutto e per tutto, vale a dire: solo la Russia salverà il mondo. Purché stia distante dalle idee occidentali.
Buona parte del libro è dedicata alla Francia e ai francesi o meglio: a demolire la Francia e i francesi. Non si salva praticamente nulla.
Si tratta di un popolo di borghesi, che pensa solo ai soldi, all’eloquenza; che va a teatro ad ammirare spettacoli sempre uguali, che confermano al francese quanto è bravo e buono e giusto, quanto è bello essere “proprio così” (cioè francese) e quanto sono buone le qualità francesi (che nella vita pratica sono disattese perché il francese è un ipocrita).
Eccetera eccetera.
Ma è ovvio. Fedor doveva agire in questo modo. Già allora aveva creato la sua impalcatura ideologica ed era necessario demolire tutto quello che potesse metterla in discussione. Della Francia quindi non doveva restare pietra su pietra (metaforicamente). Sia chiaro: che in Europa ci fosse parecchio scetticismo sulla modernità, su quanto stava arrivando o meglio su quanto già era arrivato, non era affatto una sorpresa.
Balzac
Il punto è che Fedor non ne fa cenno. Non dice nulla. Per un paio di ragioni, almeno.
La prima?
Le personalità che criticano il percorso intrapreso dall’Europa sono anche francesi. Non puoi demolire tutto quello che è francese e poi riconoscere che tra di essi ci sono eccome voci che, più o meno, la pensano come te. Perché allora occorre riconoscere che se ci sono delle voci critiche, allora probabilmente esistono anche le energie per uscire da una situazione che si percepisce sbagliata. Ma allora, come continuare ad affermare che solo la Russia salverà il mondo? Non puoi, esatto.
Chi sono queste voci? Un paio come ho detto prima (in realtà una non è francese). La prima è quello dello scrittore francese (molto apprezzato da Dostoevskij) Honoré de Balzac.
Nell’introduzione a un suo libro dal titolo “Gli impiegati” Balzac scrive qualcosa di molto interessante. Che cosa?
Ecco:
“La sola missione dei libri è indicare i disastri prodotti dal cambiamento dei costumi”.
Lo scrive nel 1838, Dostoevskij ha 17 anni. E Balzac ha alle spalle la rivoluzione francese. Ha sotto gli occhi la condizione della nobiltà che sbava per il denaro, scodinzola quando ne sente l’odore. Ha gettato alle ortiche i doveri che aveva, gli ideali. L’intera società francese è come ubriaca di frenesia, di voglie, di ambizione. Conta appunto quello: l’ambizione, il successo, il denaro. Se esiste un preciso “notaio” della Francia ubriaca di progresso; se c’è uno scrittore (formidabile) che la dipinge con mano vigorosa e precisa in questa corsa senza pensieri verso un futuro luminoso (?), è Balzac.
Certo, Balzac voleva far parte della nobiltà. Compra quel “de” che piazza nel suo cognome; gira coi paggi, mentre la carrozza ha sulle porte il dipinto del suo stemma (almeno finché i creditori non gli prendono tutto). Ma questo non gli impedisce di sparare a palle incatenate su un mondo che ama, ma proprio per questo non può evitare di accusare.
Fedor sembra non accorgersene.
Charles Dickens
L’altro è Charles Dickens e pure questo fuoriclasse inglese era conosciuto e apprezzato da Fedor.
Se esiste un autore che ha accusato la società inglese di insensibilità, grettezza, ferocia nei confronti dei bambini, è proprio Dickens. Una società che però ai suoi occhi aveva la capacità di redimersi, ma solo grazie al singolo (Dickens non aveva simpatie politiche o sindacali, nei suoi libri nessuno si unisce ad altri per migliorare la società) che lavorando duro, restando tenace, alla fine trionfa. E trionfare per Dickens non significa cambiare la società (attacca la scuola inglese, i suoi metodi retrogradi, ma spedisce i suoi figli in quella scuola che lui criticava tanto), ma entrare a farne parte. Prendere una fetta di benessere, insomma.
Vero è che verso la fine della sua vita la produzione letteraria si incupisce. Come se si rendesse conto che afferrare una fetta di benessere, lasciasse in sospeso altre questioni ben più importanti.
Dickens celebra il trionfo dell’individuo che ce la fa, che a dispetto di tutto e tutti riesce a conquistare la felicità. Ma probabilmente si rende anche conto che il grosso della società finisce male. Che fare allora? Non avrebbe mai e poi mai messo in discussione lo status quo, si limita, forse con sbigottimento e un po’ di timore, a registrare il fatto: abbiamo un problema. Il socialismo? Non può prenderlo in considerazione, sarebbe troppo per lui. Alla lunga scopre di essere in un vicolo cieco.
Dostoevskij apprezza Dickens, lo legge; ma per lui non è sufficiente indicare quello che la rivoluzione industriale produce. Dickens si muove per le luride strade di Londra, ne vede la miseria e la racconta, ma accanto a essa scorge quel dinamismo, quella frenesia, quel desiderio di fare, di lavorare che sempre (o quasi sempre), permette all’eroe delle sue storie di emergere, finalmente. Ed è il frutto della rivoluzione industriale, della modernità.
A Fedor andava bene la denuncia probabilmente; non la celebrazione del resto. Quindi tace.
Eppure la denuncia non è roba da poco. Se però devi difendere la tua idea: solo la Russia salverà il mondo, devi o ignorarla, oppure passare oltre. Apprezzarla, e magari sottolinearne i limiti (come farà molti anni dopo George Orwell). Ma non potrai aggiungere altro.
Quello che Dostoevskij non vuole vedere
L’altra ragione che spinge Fedor a non vedere, a non riconoscere che anche in Europa ci sono voci che concordano con lui?
Spesso si tratta di voci cattoliche. E lui detesta i cattolici.
Si potrebbe iniziare con Chateaubriand, un nobile che è riuscito a passare abbastanza indenne tra i fuochi e le ghigliottine della Rivoluzione francese (ma almeno un paio di suoi parenti furono giustiziati). Scrive un’opera dal titolo inequivocabile: “Il genio del Cristianesimo”. Ha un successo enorme, non solo in Francia. Un libro che propone il cristianesimo della Chiesa cattolica a una Francia dei lumi che aveva cercato di celebrare il culto dell’Essere supremo di Robespierre. Dove si dice che arte e bellezza trovano nel cristianesimo (cattolico) la loro espressione più alta.
Dostoevskij non ne sapeva nulla? È possibile. Ma se lo avesse saputo se ne sarebbe stato in silenzio. Solo la Russia salva il mondo, eccetera eccetera.
Jules Barbey d’Aurevilly. Scrittore, monarchico, cattolico (dopo essere stato ben distante dalla religione cattolica), attacca con furia la borghesia, i suoi valori. Muore a Parigi nel 1889. Per lui solo il cattolico può guardare negli occhi il Male, affrontarlo senza giudicarlo, e qui c’è un atto morale sublime che, appunto, è tipico della religione cattolica. Non come i bigotti, o gli ipocriti protestanti (era un tipo che non andava tanto per il sottile).
Fedor non ne ha mai sentito parlare? Possibile, oppure… Solo la Russia salva il mondo, eccetera eccetera.
Il sulfureo Leon Bloy, giornalista e scrittore. Nasce nel 1846 (Dostoevskij è del 1821), è socialista grazie al padre, ma è anche un tipo violento (il padre lo ritira da scuola perché tenta di accoltellare un suo compagno di classe). Poi incontra Jules Barbey d’Aurevilly, si converte al cattolicesimo, spara a palle incatenate contro la modernità. Vive letteralmente della carità altrui (avrebbe potuto essere il Vittorio Sgarbi di quegli anni), perché litiga praticamente con tutti, fa della polemica violenta il suo marchio di fabbrica.
Dostoevskij critica la Francia e il borghese che domina tutto? Ecco cosa scrive Bloy a questo proposito:
“Ci si chiede spesso perché il Borghese sia tanto porco, così crapulosamente basso, talmente sprofondato nelle latrine. Semplicemente a causa delle nuvole”.
Oppure:
“Chi è il Borghese? Un porco che vuole morire di vecchiaia”.
Fedor lo ignora? Probabile, ma… Solo la Russia salva il mondo, eccetera eccetera.
La libertà
Insomma, che cosa voglio dimostrare con tutta questa tiritera? Nulla di clamoroso.
Innanzitutto, che il viaggio non apre la mente. O almeno, la apre solo se IO lo voglio. Se non lo desidero: Solo la Russia salva il mondo.
Poi, che avere un’impalcatura ideologica non vuol dire scrivere male, anzi. Se esiste un fuoriclasse assoluto è proprio Dostoevskij, che non si lascia ingabbiare dalle sue idee, perché si rende conto di quanto sia strano l’essere umano. Imprevedibile. In una parola: libero.
È uno dei più grandi scrittori di sempre perché ci ricorda sempre la libertà dell’essere umano. Non è una cosa da poco.
Dostoevskij? Ha il chiodo fisso. Sola la Russia può salvare il mondo. Ma non mi sembra una grande idea la sua. Diciamo che è un bel conservatore come tutti quelli citati nel post. Il progresso fa paura, perché non si riesce a governare
Quindi è meglio il vecchio angolo buio dove tutto è noto fin dall’inizio piuttosto che il salto nel buio del progresso. Diciamo che il progresso o presunto tale volte non è mai un qualcosa di benefico, anzi.
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Ma quando scriveva i romanzi era e resta il numero uno. Ah, ma tu i russi non li leggi 😀
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Esatto. 😀
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Grazie per l’analisi, Marco. Ho letto (e riletto) quasi tutto di Dostoevskij e notato anch’io una buona propensione a un pizzico di nazionalismo (non del tutto cieco: in molti suoi testi, vedi I demoni, anche la madre Russia viene fatta a pezzi).
Avevo già adocchiato questo libro, ma, per esperienza, l’ho evitato di proposito. Rifuggo da diari o epistolari o simili perché spesso li trovo noiosi o (difetto mio) mostrano una dimensione troppo “umana” di un autore e meno si concentrano sul processo creativo che m’interesserebbe di più. Diciamo che preferisco concentrarmi sui suoi romanzi. Vero quello che dici sull’apertura necessaria a far sì che anche il viaggio diventi esperienza feconda: anche il cambiamento personale presuppone la stessa apertura e predisposizione.
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A me invece questo genere di pubblicazioni interessano abbastanza. Proprio per cercare di capire il “dietro le quinte” di un autore. Anzi, se potessi di Dostoevskij comprerei proprio le lettere, ma il prezzo è un tantino alto…
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