“La via del ritorno” o le parole svelate


 

 

di Marco Freccero. Pubblicato il 22 maggio 2023.

 

 

Dopo molti anni ho riletto “La via del ritorno” dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque. Uno degli autori del Novecento più notevole. Famosissimo per l’altro romanzo, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, spesso però non si ricorda a sufficienza il resto della sua produzione. Di grande livello a mio parere, e questa storia pubblicata nel 1931 è la continuazione del primo romanzo.

Per esempio, in “Niente di nuovo sul fronte occidentale” compare Tjaden, che ritroviamo anche in questo libro. Come si capisce, è la storia del ritorno a casa di un pugno di soldati tedeschi. All’inizio li troviamo al fronte, a combattere. Poi, improvvisamente, arriva la pace. È tutto finito, la Germania ha perso la Prima Guerra Mondiale. Si torna appunto a casa, mentre il Kaiser pare sia scappato. Strano: i soldati al fronte se provavano a scappare erano fucilati. Lo fa il Kaiser pare la cosa più naturale del mondo…

La via del ritorno

Ma è davvero possibile tornare a casa?

Tra voci di rivoluzione e desiderio di lasciarsi alle spalle gli orrori, Remarque ci consegna il quadro di un pugno di uomini che non riesce più a trovare il suo posto nella città dove sono nati e cresciuti. Certo, anche chi è rimasto a casa è cambiato, ha vissuto la guerra, ma mai come chi è stato per anni in trincea al freddo, coi pidocchi, soffrendo la fame, e vedendo morire i suoi compagni. Sventrati, soffocati dal gas, mutilati. E poi, come fai a spiegare a tua madre che hai ammazzato degli uomini? Che se dici parolacce o bestemmi, è del tutto ovvio, perché “laggiù” non è comprensibile a chi non c’è mai stato?

I civili la guerra l’hanno vista alla stazione ferroviaria, quando ragazzi di 18, 19 o vent’anni (poi anche di 17), salivano sui treni destinazione il fronte. Con la banda, le bandiere che sventolavano, i discorsi patriottici e pieni di retorica. 

Al fronte si vedono uomini che si tengono le budella con le mani, che provano a ricacciarsele in pancia: si può davvero tornare a casa?

La via del ritorno è più lunga da percorrere di quanto si creda. Perché quando sei arrivato nella tua città, capisci che tu sei rimasto da qualche parte, impigliato in chissà che cosa. Coi ricordi della trincea che ti visitano regolarmente, e i vecchi compagni d’arme che si gettano negli affari, nel divertimento. Oppure, c’è chi si arruola di nuovo, perché nell’esercito c’è e resta qualcosa che la vita “civile” non ha, non ha più, se mai l’ha avuta. 

Tutto quello che c’era un tempo (e pare davvero un tempo lontanissimo), ha perso ogni fascino. Chi amava i libri li vende per fare soldi. Un altro sposa una donna il cui padre è macellaio, così da avere carne fresca e abbondante ogni giorno. In trincea si faceva la fame.

Quattro settimane per un romanzo

In una vecchia intervista sottotitolata in inglese, Remarque afferma che “Niente di nuovo sul fronte occidentale” è stato il suo primo libro. In verità era il secondo (“Traguardo all’orizzonte”, pubblicato di recente da Neri Pozza). Di aver scritto in 4 settimane il romanzo, e di averlo proposto a un editore che gli aveva risposto che nessuno era interessato a sentir parlare della guerra. Poi un amico passa il manoscritto a un altro editore e… Il resto è storia.

Anni dopo un altro scrittore tedesco, Heinrich Böll, Nobel della letteratura negli anni Settanta, propone “Croce senza amore” a un editore. Gli risponde che il libro è troppo duro con l’esercito tedesco (!). Lui getta il manoscritto in un cassetto, ma per fortuna scriverà dell’altro. 

Come si vede, gli anni passano, ma spesso gli editori sono piuttosto restii ad accogliere alcune opere e/o scrittori perché, secondo il loro metro di giudizio (il loro metro di giudizio), non sono adatti. Salvo poi diventare un successo colossale.

Sempre in questa intervista Remarque spiega perché (almeno sino a quel momento: siamo nel 1962) non ha mai sottoscritto appelli o partecipato ad iniziative contro la guerra. La sua idea è che questo attivismo può avere degli effetti sullo sviluppo del libro, della storia. Non ricordo se dopo abbia modificato questa sua posizione. Ma l’aspetto che più mi pare interessante è che nell’opera di Remarque è molto evidente l’ossessione che aveva per la guerra. Che nasceva da una semplice constatazione: dei giovani (tra i quali c’era lui), che dovevano affrontare la vita e la sua bellezza, le sue infinite possibilità, si sono ritrovati nel giro di qualche giorno a guardare negli occhi la morte. La propria, o dei loro amici. Era piuttosto naturale che lui abbia poi cercato, nel resto della sua produzione, di tornare tra quella gente che non è più tornata, per fare in modo che almeno avessero una qualche voce. In modo che si sapesse che cosa è per davvero la guerra. 

Non che questo abbia degli effetti decisivi (parecchi di quelli che hanno partecipato alla Prima Guerra Mondiale, si sono gettati gioiosamente nella Seconda). Ma uno degli scopi di questi libri è mostrare che cosa sia appunto la guerra: pidocchi, fame, paura, uomini sventrati… E questa semplice rappresentazione dei fatti, benché non fermi affatto la guerra, ha almeno un lato positivo. Vale a dire riconduce la parola alla sua principale funzione. Chiamare le cose con il loro nome. 

Le parole svelate

Proprio ne “La via del ritorno” questo gruppo di soldati torna alla vecchia scuola. Avendo interrotto gli studi, dovrebbero riprenderli, portarli a termine. Lì ci sono i vecchi insegnanti, e il preside inizia un discorso sul valore dei soldati tedeschi. Sì, la guerra è persa, ma il loro coraggio…

I soldati non ci stanno. Perché tutti parlano di guerra, se non hanno la più pallida idea di che cosa sia? Perché ne parlano in quel modo, che non ha nulla a che vedere coi fatti? I vecchi insegnanti, in questo caso davvero vecchi perché fuori dal mondo, e usano la parola per creare un’ideologia e celare ancora di più la realtà, sono sbalorditi. Perché questo atteggiamento? Perché questo modo di parlare?

Semplice: perché hanno visto. I loro studenti hanno visto all’opera la menzogna propalata dalla parola, e adesso la usano per lacerare il velo di bugie, di propaganda, di chiacchiere e retorica che li ha spinti in trincea. 

Anche in “Niente di nuovo sul fronte occidentale” c’era qualcosa di simile, se ricordo bene. In licenza, un gruppo di soldati si imbatte in un loro vecchio insegnante, colui che li aveva intontiti di chiacchiere e spinti ad arruolarsi. Lui era rimasto a casa, ovviamente. 

“La via del ritorno” è anche un romanzo dove i protagonisti (non tutti) tornano a casa e scoprono come la parola sia stata usata per raggirarli e gettarli nella fornace della guerra. Con la pace procede la rimozione di quanto è successo, perché ci si deve arricchire, o divertire. E la menzogna sembra trionfare in modo definitivo. Meglio lasciare tutto alle spalle, tanto i morti sono morti, mentre i vivi… 

Forse il cuore dell’opera di Remarque non è l’ossessione per la guerra; ma il tentativo di riportare la parola alla sua funzione autentica. Chiamare le cose con il loro nome.

5 commenti

  1. Lo leggerò di sicuro e ti ringrazio di aver parlato di un tema così scottante e purtroppo attuale.
    Penso che nessuno possa parlare di guerra se non l’ha passata, ma nemmeno di pace se non sa cos’è la guerra.

    Piace a 1 persona

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